La clava
Come si misura una regressione della discussione pubblica rispetto a molte questioni, a partire dalle ragioni del mutamento collettivo che stiamo vivendo anche a causa della pandemia-sindemia, così si verifica, in una sorta di immediato effetto di specularità, l’esacerbarsi e il cristallizzarsi di contro-reazioni basate sul rigetto di qualsiasi forma di risposta razionale e meditata. L’una cosa (il regresso a forme fascistoidi di visione dei rapporti interpersonali e collettivi) e l’altra (una levitante indisponibilità verso qualsiasi forma di mediazione, nel nome di una crescente insofferenza verso le manifestazioni di “orgoglio reazionario” che si accompagnano al volgare sdoganamento di un certo passato che non passa), sono quindi due aspetti del medesimo problema, ossia quello del declino della politica e del sostituirsi ad essa dei richiami all’identitarismo. Come esiste un fondamentalismo di destra, ritorna, in quanto suo gemello di segno opposto, un rimando ad un antifascismo sempre più ossificato, cristallizzato, ripiegato su di sé, che nulla riesce ad aggiungere rispetto a quanto già c’è, semmai imponendo agli interlocutori più di un passo indietro. Il terreno comune in questo agire, per una parte come per l’altra, è la rimozione della complessità del tempo che ci accompagna, quindi della necessità della sua negoziazione politica. E con essa, anche della storia non come terreno di improbabili “pacificazioni” (ovvero impossibili parificazioni, dove le responsabilità vengono cancellate o sbianchettate) bensì come campo di comunicazione tra vissuti (memorie) spesso in conflitto tra di loro. A ciò, infatti, si sostituisce l’enfatico richiamo alle proprie “radici”, vissute come una sorta di etica insindacabile. Lo sfarinamento della convivenza pluralista, che è il terreno prediletto dai fascismi di ogni tempo e luogo, si alimenta anche dei massimalismi culturali, trattandosi del migliore avversario che possano augurarsi di trovare dinanzi a sé. Poiché in esso si rispecchiano, trovandovi più assonanze e concordanze che non opposizioni di merito. Quand’anche gli uni dicano di essere completamente opposti all’altro. Il pluralismo non si basa sulla rivendicazione dello scalpo del “nemico”, nel nome della propria identità difesa come una sorta di feudo inattaccabile. Il pluralismo non è neanche relativismo, coesistenza al medesimo tempo debole ed obbligata, quindi tolleranza indotta. Atteggiamenti, questi ultimi, revocabili in ogni momento. Semmai, invece, è la fatica quotidiana di comporre un mosaico di tasselli dove parti tra di loro diverse trovano un comune denominatore nello stato di diritto. Un concetto, quest’ultimo, con le sue correlative prassi, che risulta a molti ancora incomprensibile, malgrado decenni di pedagogia democratica.
Claudio Vercelli
(14 febbraio 2021)