Periscopio – Giustizia

La possibile messa in stato di accusa di Israele innanzi alla ICC (International Criminal Court) de l’Aia, su richiesta della Procura della Corte Internazionale, è già stata oggetto di molteplici commenti, di vario tenore, su svariati mass media, e anche sulle colonne di questo giornale (in particolare, in un attento e dettagliato resoconto pubblicato lo scorso venerdì 12 febbraio, a firma di Daniel Reichel). E al tema, tra l’altro, è stato dedicato un interessante webinar, promosso dalla Federazione delle Associazioni Italia-Israele, svoltosi lo scorso mercoledì 10 febbraio, nel quale si sono potute ascoltare le voci di diversi commentatori, a cominciare da quelle dell’Ambasciatore di Israele, Dror Eydar, e del Presidente della Federazione, Giuseppe Crimaldi.
La vicenda si presta a diverse considerazioni, le quali andrebbero articolate su tre distinti piani: giuridico, politico e morale.
Cerchiamo, brevemente, di analizzare come la vicenda si presenta, su ciascuno di essi.
Prima, però, mi sembra opportuna una breve premessa. La difesa del diritto, della legge e della giustizia, sempre e dovunque, e nei confronti di tutti, è per me un valore sacrosanto e indiscutibile. Nessuno (individuo o stato) è al di sopra della legge e del diritto, tutti devono poter essere chiamati a rispondere della legittimità delle loro azioni. In nome di questo principio, non ho avuto mai la minima esitazione a criticare leader internazionali di grandi Paesi democratici (come, per non fare nomi, Berlusconi e Trump), nonostante il loro appoggio a Israele, e anche importanti figure istituzionali dello stesso Stato ebraico (come, sempre per non fare nomi, il Premier Netanyahu), e non certo per il loro essere colpevoli (questo lo decidono i giudici, e solo loro), né per per avere contestato questo o quel provvedimento giudiziario loro riguardante (cosa legittima), ma per avere pubblicamente mostrato, in alcune occasioni, di rifiutare lo stesso principio delle divisione dei poteri e dell’indipendenza della magistratura. Ringrazio ancora l’allora Presidente d’Israele Moshe Katzav per avermi voluto incontrare di persona, anni addietro, insieme ad altri, e considero ancora quell’incontro un grande onore. Ma quando Katzav, purtroppo, è poi stato processato, condannato, destituito e mandato in prigione, pur provando umana comprensione per la sua sofferenza, ho provato un sentimento di ammirazione per la giustizia israeliana, per la sua capacità di affermare il sacrosanto principio che la legge è uguale per tutti, e per il suo fare sempre fino in fondo il proprio dovere. Perché ritenevo, e ritengo ancora, che a muoversi fosse una vera Giustizia.
Tanto premesso, vediamo cosa significa questo processo sui tre livelli menzionati.
Sul primo piano, quello giuridico, la risposta è facile. L’eventuale processo non avrà nessun valore, perché Israele non ha mai aderito alla Convenzione di Roma, istitutiva della Corte penale internazionale, e perché eventuali errori, devianze e responsabilità a carico di cittadini o autorità israeliane nella gestione del conflitto israelo-palestinese o nel contrasto al terrorismo (che, ovviamente, possono esserci state, e possono e devono, nel caso, essere sanzionate) vanno sottoposte all’esclusivo giudizio della giustizia di Israele, unico stato sovrano e democratico titolato a farlo. Punto.
Sul piano politico, la risposta è ancora più facile. Il processo non sarà che l’ennesimo tentativo di delegittimazione e criminalizzazione di Israele a livello internazionale, e un incoraggiamento a tutti gli stati e i movimenti che ne colpiscono i cittadini, o minacciano di farlo, con la forza delle armi e della violenza terroristica. I mezzi sono diversi, ma l’obiettivo è analogo. Si potranno criticare quanto si vuole i metodi violenti adoperati, ma la critica sarà debole e ipocrita, se perfino un’alta Corte di giustizia vorrà mettere nero su bianco che, effettivamente, quei metodi vengono usati contro un fuorilegge.
Sul piano morale, oltre a essere facile, la risposta è anche triste. Nel mettere sullo stesso piano un Paese democratico, che, da sempre, cerca di fronteggiare martellanti attacchi concentrici, militari e terroristici, portati dall’esterno e dall’interno dei suoi confini, con una spietata e sanguinaria organizzazione criminale, quale Hamas, è una cosa che si commenta da sola. La natura umana non si concilia con la perfezione, e tanto Israele quanto Hamas, in quanto fatte da uomini, commettono errori. La piccola differenza è che Israele si sforza sempre di limitare al minimo le sofferenze dei civili tra le file dei nemici, mentre Hamas fa l’esatto contrario. Per Israele, ogni vita innocente recisa in una propria azione militare, è un tragico errore; per Hamas, un tragico errore è ogni vita ebraica non raggiunta da un’esplosione, una raffica di mitra, un camion lanciato su una folla, un assalto all’arma bianca. Vedere dei giudici che non lo capiscono è una cosa, appunto, molto triste. Consiglierei loro di dedicare un po’ meno tempo ai libri di diritto (se, ogni tanto, ne leggono qualcuno), e di tornare sui banchi di scuola a ripassare i fondamentali, cominciando dall’alfabeto e la tabellina dell’uno.
Quis custodit custodes?

Francesco Lucrezi