Europa 33
Georges Simenon è conosciuto in Italia soprattutto per i gialli che hanno per protagonista il commissario Maigret; si è poi diffusa, per merito dell’editore Adelphi, la conoscenza dei suoi romanzi noir, che hanno permesso di comprendere pienamente il valore della sua scrittura. Non era invece conosciuto come giornalista, come autore di quei réportages di viaggi che hanno costituito un genere giornalistico-letterario in gran voga tra ‘800 e ‘900 e che è praticamente scomparso con l’avvento della televisione. Bene ha fatto dunque Adelphi a pubblicare una seconda raccolta dei suoi réportages di viaggio del 1933-1934 sotto il titolo fortemente evocativo di Europa 33, dopo una prima dal titolo Il Mediterraneo in barca. Come spiega Matteo Codignola in una nota finale gli articoli erano apparsi – prima di essere raccolti in volume – sulla rivista “Voila”, edita da Gallimard e dedicata esclusivamente a réportages d’autore corredati da servizi fotografici definiti “di altissima qualità”, una qualità che in questa edizione possiamo soltanto intuire.
Il titolo stesso della raccolta ci proietta subito nel cuore di un’Europa malata che in quell’anno vede l’avvento al potere di Hitler e, in effetti, l’ombra del dittatore tedesco è presente in tutto il libro. L’ombra, non la presenza reale, perché Simenon sembra deliberatamente evitare di entrare in una Germania che proprio in quell’anno ha conosciuto la svolta tragica che condurrà rapidamente l’Europa alla seconda e più grave catastrofe nel corso di un trentennio. La Germania è soltanto attraversata in wagon-lits per raggiungere quell’Europa orientale che è lo scenario scelto da Simenon per il suo viaggio.
In effetti, dopo una prima digressione dedicata al tema – abbastanza abusato ma sviluppato in questo caso con originalità – dell’immagine che i francesi hanno del Belgio, i grandi treni internazionali portano Simenon in Lituania, in Polonia, in Romania, in Turchia, per giungere infine in Unione Sovietica, sulle rive del Mar Nero.
Simenon stesso dice che le sue non sono cartoline illustrate ma istantanee che fotografano persone e situazioni in maniera apparentemente disorganica, senza la pretesa di costruire in base ad esse conclusioni di tipo politico e tanto meno ideologico. In realtà, proprio per questo carattere apparentemente casuale, le istantanee scattate dallo stesso autore ci restituiscono senza mediazioni una realtà dominata da due aspetti: la fame e i nazionalismi.
La fame descritta da Simenon è qualcosa che in Occidente è scomparsa anche dalla memoria dei più anziani. E’ una fame che dura tutta la vita, che non si attenua mai, che fa strage di bambini. L’espressione “morire di fame”, che è diventata un’immagine figurata, nelle pagine di Simenon è qualcosa di quotidiano, che avviene sotto gli occhi dell’osservatore. Il nazionalismo che caratterizza il linguaggio dei tanti personaggi incontrati appare in un certo senso una forma di compensazione della fame. Come spesso accade il nazionalismo assume forme ridicole e grottesche, che Simenon mette in evidenza, anche quando finisce per esserne lui stesso protagonista e vittima, come quando è costretto ad attraversare a piedi, nella neve, la frontiera tra Lituania e Polonia, in conflitto tra loro per il possesso della città di Vilnius.
Un discorso a parte merita la sua ultima tappa, quella nel sud dell’Unione Sovietica, lungo le coste del Mar Nero, da Odessa a Batum. Dal punto di vista storiografico sono state scritte infinite opere sullo stalinismo, sulla presenza oppressiva e onnipervadente della polizia politica, la Ghepeu. Ma anche in questo caso si misura la differenza tra una corretta e rigorosa ricostruzione storiografica e la testimonianza diretta dell’osservatore che non vuole dimostrare niente, solo raccontare quello che avviene sotto i suoi occhi. E con i suoi occhi Simenon può vedere la strage per fame dei kulaki, quelli che nell’analisi di classe del marxismo sovietico vengono definiti contadini ricchi e che molto spesso erano considerati tali perché possedevano qualche capo di bestiame. Gli capita di vedere con i propri occhi cadere per terra morto per fame qualche kulak; ma la cosa che più impressiona è la teorizzazione della necessità di questa strage fatta dai suoi accompagnatori sovietici. In mezzo a questa umanità senza speranza capita ogni tanto di imbattersi – in Lituania, in Polonia, in Russia – nella figura di qualche ebreo poverissimo e non si può fare meno di pensare che dal lì a pochi anni quello stesso ebreo finirà in un campo di sterminio.
Valentino Baldacci
(18 febbraio 2021)