Machshevet Israel
Halakhà e messianismo
Aver sottovalutato l’intrinseco valore messianico dell’halakhà è uno degli errori o almeno una delle false prospettive della modernità ebraica. Non è una mia opinione; è la tesi dell’ultimo grande rappresentante della simbiosi ebraico-tedesca, Steven Shmuel Schwarzschild (Francoforte 1924- St Louis 1989). Scappato da ragazzo con la famiglia dalla Germania negli States, dopo aver conseguito il titolo rabbinico presso i Reform, ha scelto la via dell’accademia dando forma e voce a un razionalismo etico “dalle fonti classiche del giudaismo” (leggi: Maimonide, mediato da Hermann Cohen) ma teso al contempo al recupero di alcuni elementi negletti o rifiutati dalla sensibilità riformata, in particolare la dottrina di un messia personale e la centralità dell’halakhà nella vita ebraica. Reclamare l’origine divina dell’halakhà, in controtendenza con il pensiero ebraico modernista e in sintonia con le correnti ortodosse (Schwarzschild è stato un grande estimatore dell’ortodossissimo rav Yitzchaq Hutner), contribuisce secondo questo rabbino-filosofo a fondare l’etica in un assoluto e a dare contenuti alla speranza messianica, sottraendo quest’ultima alla sfera del mero sentimento, a una certa vaghezza teologica e soprattutto alle tentazioni idolatriche del velleitarismo politico. L’aver mostrato il nesso profondo tra halakhà e messianismo mi pare uno dei tratti più originali del suo pensiero.
Si tende spesso, infatti, ad associare messianismo e antinomismo, come se la fede nel messia negasse o sospendesse il valore della Legge. La storia di certe correnti pseudo-messianiche, studiata e divulgata da Scholem, avallerebbe questa tesi. Al contrario, sostiene Schwarzschild, l’halakhà non solo non è un ostacolo alla ‘rivoluzione messianica’ ma esattamente lo strumento con cui quella rivoluzione raggiunge i suoi scopi. Ne scrive così: “L’halakhà è eternamente valida e applicabile al mondo perché non sorge da un qui e ora di natura sociologica né è pensata in tal senso. Essa ha origine da Dio, come realtà oltre ogni cambiamento, e tale immutabilità è attribuibile alla Sua Legge; pertanto è rilevante in ogni società, del passato o del presente o del futuro, sino a quando il mondo sarà divenuto quel che Dio vuole che sia: il Regno messianico della nostra integrità morale. L’halakhà è la legge della società sempre-futura e la normativa che guida ogni società di oggi verso la società ultima e futura”. Chi interpreta il messia in termini antinomici si pone ipso facto fuori dal giudaismo, e soprattutto disconosce l’unico strumento divino che è nelle mani dell’essere umano per accelerare la venuta del Regno, della malkhut ha-shammayim. Scrive ancora questo discepolo di Hermann Cohen: “Ogni volta che gli ebrei agiscono conformemente all’halakhà o affrettano la venuta del Regno o davvero lo istituiscono nel momento e sul luogo in cui si trovano. Forse lo shabbat è la miglior esemplificazione di questo processo… In quanto anticipo del mondo futuro, lo shabbat settimanale è una piccola porzione dell’anno sabbatico, che a sua volta è una piccola porzione dell’anno giubilare, che non è con il suo egalitarismo sociale che una piccola porzione dell’era messianica. Ogni aspetto halakhico della vita ebraica, su base quotidiana, conduce allo shabbat, e ogni aspetto halakhico dello shabbat ebraicamente vissuto conduce al compimento messianico”.
Per il filosofo l’halakhà è una forza rivoluzionaria per la società umana, un elemento di critica verso ogni status quo, fatto di ingiustizie economiche e violenze politiche, da un lato e dall’altro di progresso e di stimolo per riparare il mondo e renderlo più giusto. Un concetto teologicamente fondato come quello di halakhà si mostra, nella sua dimensione applicativa, un’idea quasi-laica, imperniata sui doveri e le responsabilità nei confronti di questo mondo. L’halakhà infatti sembra implicare un Dio-che-si-nasconde, l’El mistatter di cui parla Isaia. Tra le fonti di questi pensieri vi è senz’altro l’insegnamento di rav Hutner “che professava senza reticenze la sua appartenenza al chassidismo di Kotzk, con una forte caratterizzazione razionalista” dice Schwarzschild, che lo fece conoscere filosoficamente anche fuori dai circoli chassidici: la visione hutneriana del mondo ruota intorno alla nozione dell’El nistar u-mistatter e si connota per una forte dialettica intrinseca alla vita del mondo tra il male che genera sofferenze e la forza terapeutica e restauratrice della Torà e dell’halakhà.
Schwarzschild pensa però il valore di Torà e halakhà in modo neo-kantiano (non troppo diversamente da rav Joseph Soloveitchik) e rintraccia ancora una volta in Maimonide una loro declinazione in termini universali, come avviene nelle Norme sugli anni sabbatici e giubilari (Hilkhot shmittà veyovel XIII, 13) dove si parla dell’universale fraternità umana: kol ish va-ish mikol baè ha‘olam ossia ‘ogni essere umano tra tutte le creature del mondo’ non è diverso da un levita, se si lascia ispirare dallo spirito della conoscenza di Dio e cammina nella giustizia della Sua Legge. Diffondere l’ideale messianico della conoscenza di Dio e istruire gli esseri umani sulle vie divine sono senz’altro tra gli scopi della Torà e dell’halakhà, almeno per il Rambam.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(18 febbraio 2021)