Storia e memorie

Sussiste, nel dibattito di senso comune, come – anche se con minore frequenza – nell’ambito disciplinare delle scienze storiche e della storiografia, la perenne tentazione, che attraversa ogni riflessione nel merito di quell’oggetto oscuro delle nostre scienze umane che è l’universo degli studi di contemporaneistica, di liquidare la complessità di fenomeni quali i regimi politici del Novecento dentro un quadro interpretativo falsamente semplificatorio. Ovvero riducendoli a pochi elementi la cui intima radice, proprio per la sua presunta ovvietà, ricorrenza e immutabilità, dovrebbe essere in sé garanzia della loro intelligibilità. Sovrapponendo quindi gli effetti (gli esiti delle concrete condotte posti in essere dagli attori della scena storica) alle intenzioni (qui da intendersi come il progetto iniziale), in una discutibile inversione di senso, per cui i primi spiegherebbero immediatamente le seconde, seguendo un criterio di immediata linearità e monocausalità. In altre parole ancora, le deportazioni staliniane delle nazionalità “ostili” sarebbero inscritte in una deviazione originaria, quella del comunismo inteso come specie di un più ampio genere, il totalitarismo. E il loro storico verificarsi offrirebbe riscontro dell’effettiva fungibilità interpretativa di una categoria astratta. Del pari si potrebbe dire per quanto concerne una frettolosa lettura che ascrive al solo antisemitismo tedesco l’intero processo di sterminio conclusosi con le camere a gas di Auschwitz o Treblinka. Ma con questo modo di procedere, oltre ad invertire l’ordine dei fattori e rischiare di cadere nella formulazione di quelli che ben presto diventano cliché e luoghi comuni, si perviene non ad interpretazioni bensì a forzature che nel tentativo di imporre una lettura orientata appannano completamente la percezione della complessità dei regimi politici dentro i quali maturarono tali spinte omicide. A ciò si aggiungerebbe una proprietà transitiva per la quale il giudizio di equivalenza morale tra comportamenti criminali fonderebbe una condizione di analogia, anche sul versante storiografico, tra vicende diverse. Nel caso nostro tra comunismo e nazionalsocialismo. «Sul piano morale non esiste infatti alcun motivo di istituire una gerarchia tra le vittime del nazismo, dello stalinismo o di ogni altro sistema politico che si serva del terrore; ma ciò non significa che sul piano dell’analisi, tutti i sistemi si equivalgano. Se le sofferenze di tutte le vittime innocenti della violenza politica meritano un identico rispetto nella memoria, ciò nondimeno i crimini e i carnefici non necessariamente si equivalgono, previo almeno un inventario reale». Così Henry Rousso, nel suo «La legittimità di una comparazione storica», contenuto nel lavoro collettaneo su «Stalinismo e nazismo» a cura di Henry Rousso, pubblicato già una ventina di anni fa. Imponendo il moralismo come prassi di interpretazione corrente, laddove alla valutazione di giudizio che segue il percorso cognitivo della ricerca dei fatti fa invece premio un’impostazione che vuole verificare la primazia di una dimensione etica che presiederebbe e s’imporrebbe aprioristicamente a qualsivoglia ipotesi di riflessione, si rende la ricerca mera sede di riscontro di costrutti idealistici. Facendo della storia non il luogo di azione di collettività, individui e forze concrete bensì la sede ove riscontrare la presenza di una coscienza morale intesa come assoluto. Più una metafisica dello spirito che una dinamica dei fatti. Nella sostanza quel che emerge da questo novero di questione è la tentazione alla manipolazione per fini politici del discorso storico, assecondando quella vocazione all’uso e all’abuso pubblico dello stesso che è divenuta ricorrente in questi ultimi vent’anni, a fronte del mutamento di quadro istituzionale e, finanche, costituzionale che va verificandosi negli assetti interni del nostro Paese. Ciò a cui si è assistito negli ultimi quindici anni è una vera e propria “strategia dell’eclatanza”, prodotto di un revisionismo massmediale, di senso comune, che non solo ha invaso i territori della ricerca ma ne ha modellato anche confini e contenuti, concorrendone a stabilire, almeno in parte, temi, agende e finalità. Ricorrendo, per ottenere ciò, al criterio retorico in virtù del quale l’approccio alle cose del passato – e il significato da attribuire ad esse – deve essere fondato su una rilettura radicale delle stesse (atteggiamento presentato come utile e in sé intrinsecamente corretto), sull’enfatizzazione dei particolari a scapito del quadro generale, sull’intenzionalità dei singoli rispetto alla comprensione dei campi di forze e della dialettica tra i protagonisti collettivi. Soprattutto, sull’evocazione a ogni piè sospinto delle qualità di ciò che si suole chiamare “nuovo”, inteso nella duplice accezione di scoperta e denuncia di capitoli delle vicende umane che sarebbero rimasti volutamente occultati, di contro alle letture “tradizionali”, omissive, condotte da operatori professionali influenzati da egemonie politiche, osservanze corporative e sudditanze culturali. Questo procedere, che è un modo per ribaltare i criteri di approccio al discorso storico, registra, e nel medesimo tempo promuove, anche una significativa inversione di segno nella ricerca: non si cerca più nel passato una legittimazione del presente. Semmai si usa il presente per delegittimare il passato. Poiché il ricorso alla storia, nelle attuali condizioni del dibattito politico, porta spesso con sé tale tratto. Uno sguardo miope, in altre parole. Viviamo un transito contraddittorio, caratterizzato dalla coesistenza di sradicamento da quel che fu (la cognizione critica della temporalità, della profondità dei processi sociali e culturali difetta, e non solo tra le generazioni più giovani), da una ipertrofia della memoria (attraverso l’invasione di campo compiuta da questa nella storia in quanto tale; segno della individualizzazione del discorso storico, della sua riduzione a racconto personale, soggettivo) e da un eccesso di riferimenti storici nel discorso pubblico, soprattutto quello di ordine politico. La storia rischia di diventare quindi un vuoto contenitore – inteso come strumento di legittimazione o delegittimazione, a seconda delle mutevoli esigenze del caso – dentro il quale collocare contenuti strettamente individuali, tra cui la stessa memoria assunta acriticamente come trasposizione oggettiva di esperienze invece soggettive, rese quindi indiscutibili, che nel loro manifestarsi surrogano la necessità di una sintesi più ampia. Contenuti che si coniugano, frequentemente, al “sentito dire”, alla diceria non comprovata da riscontri, all’enfatizzazione del dato emozionale, non inquadrato in un contesto di significato capace di affrancarsi dal semplice percetto. Peraltro, se nulla è da eccepirsi nel merito di una indagine sulle emozioni del ricordo è bene richiamare alla consapevolezza di tutti la cognizione che queste non sono mai state esplicative del senso degli eventi. Semmai ne registrano l’impatto, a distanza, su coloro che li vissero. Aspetto rilevante ma non esaustivo. Ancor più pericoloso, poi, quando l’intendimento che sta dietro questo modo di procedere è di ridurre la dialettica e l’intelligenza del passato alla mera contrapposizione tra vittime e carnefici. Due categorie che si prestano anch’esse ad una sorta di cristallizzazione se assunte incautamente come degli assoluti interpretativi. E che corroborano la tentazione di tradurre il lavoro storiografico in una sorta di fucina di quella impropria “religione civile” nella quale si traducono certi attenzioni eccessive, a tratti maniacali, per le tragedie del passato. In questi ultimi lustri si è poi andato consolidando anche un “culto” della memoria antifascista (la cui intensità è pari solo alla perdita di aderenza politica che sta registrando), auto-referenziato, che tende, a sua volta, a confondere le forme e i contenuti della esperienza individuale con il discorso storiografico in quanto tale. Di fatto esso surroga e prosegue la lotta politica con altri mezzi, dissimulando la sua vocazione alla rappresentanza di istanze soggettive con la finzione di assumere i connotati di una offerta disciplinare. Del pari si potrebbe dire riguardo a certo revisionismo. Reciproco inverso di quelle narrazioni antifasciste ossidate e fissate nella propria celebrazione, il criterio di rivedere aprioristicamente il giudizio complessivo sul passato – si badi bene, non sui fatti del passato in quanto tali – è mera strategia retorica, camuffata sotto le false vesti di denuncia. Il lavoro della memoria, comunque imprescindibile per lo storico, non esaurisce tuttavia la sua attività laboratoriale. Ne è parte integrata, non integralità dell’analisi. Nel medesimo tempo la pedagogia è componente e riversamento pubblico della riflessione sul passato, e non può essere disattesa, ma non risolve le motivazioni né tantomeno definisce le metodologie dello storico. Altrimenti la storia di una comunità si “presentifica”, schiacciandosi sul “qui ed ora”, fino ad annullarsi. O ad assumere funzioni che non gli competerebbero, trasformata in tribunale permanente – una sorta di continua Norimberga – ove si celebra un processo dagli effetti retroattivi ai protagonisti del passato. La costruzione di false simmetrie, la denuncia di ipermnesie (eccesso di ricordi) o di amnesie, la confusione tra piano morale e analisi disciplinare possono così diventare impedimenti al prosieguo del lavoro. Quantomeno ne dirottano la traiettoria, rendendola funzionale ad obiettivi non di comprensione ma di assunzione acritica di quelli che sono percetti e intuizioni trasformati in concetti e verità. Si tratta quindi di interrogarsi sulla natura e la funzione di quelle “politiche della memoria” che oggi hanno buon seguito, affiancandosi e sostituendosi al lavoro sui documenti, all’interrogazione delle fonti, alla costruzione del giudizio di fatto. Cogliendo delle prime ambivalenze, coni d’ombra così come risorse e prospettive.

Claudio Vercelli