Periscopio
Qualcuno era comunista

Molto numerosi, doverosamente, sono stati, nel nostro Paese, i commenti dedicati – in forma di articoli, saggi, interviste, documentari, libri -, a un secolo di distanza, alla scissione di Livorno, che portò alla nascita del Partito Comunista Italiano. Un evento che ha segnato profondamente la storia del nostro Paese e del nostro continente, aprendo una lunga stagione di lotte, speranze, errori, utopie, successi, sconfitte, tragedie. Una storia articolata e complessa, su cui è difficile dare un giudizio complessivo che non sia superficiale e sbrigativo. Così come è difficile, in particolare, sintetizzare brevemente quale sia stato l’ambiguo e controverso rapporto tra il comunismo e l’ebraismo. Lo stesso marxismo, com’è noto, è stato considerato, nel suo insieme, come una sorta di grande “eresia ebraica”, un tentativo radicale e violento di realizzare con la forza e la violenza, qui e ora – senza Dio, o contro Dio – quell’utopia di riscatto e rigenerazione che tante generazioni di ebrei avevano confinato in un futuro tanto incerto, lontano e indefinito da essere infine fatto coincidere, da alcuni, con un “mai”. Tanti, com’è noto, sono stati gli ebrei che a questo progetto, a questa ‘eresia’ hanno votato la propria esistenza; alcuni ne hanno visto scaturire – o hanno creduto di vedere – dei risultati apprezzabili; altri – probabilmente molti di più – ne hanno subito le dure, talvolta atroci, conseguenze.
Molti, nel formulare un consuntivo complessivo dell’esperienza comunista, hanno giustamente messo, tra i punti a favore, la lotta contro il nazifascismo. Ciò va senz’altro riconosciuto, anche se restano due importanti domande inevase: se Hitler non avesse invaso l’Unione Sovietica, Stalin sarebbe comunque intervento nel conflitto, o sarebbe rimasto a guardare? E, per chi propenda per la seconda risposta, i comunisti italiani avrebbero fatto qualche distinzione tra nazifascismo e democrazie ‘borghesi’, o avrebbero continuato, seguendo la linea ufficiale sovietica, a metterli sullo stesso piano, considerando la guerra nient’altro che una lotta intestina “interimperialista”?
Per quel poco che vale la mia opinione, propenderei, per entrambe le domande, per la risposta numero due. E non dimentico la vergognosa cinghia di trasmissione che, azionata dal Cremlino, subito dopo lo scoppio della Guerra dei Sei Giorni, portò tutti i Partiti Comunisti del mondo, a cominciare da quello italiano, ad abbandonare a se stesso il piccolo Paese aggredito, e a parteggiare per suoi molti e potenti aggressori. Un abbandono e un tradimento che sarebbe durati lunghi decenni.
Ma la storia del comunismo, come insegna il grande Giorgio Gaber, nella sua bellissima e triste canzone “Qualcuno era comunista”, appartiene non solo alla sfera della politica, ma anche a quella dei sentimenti. E, tra le tante frasi e considerazioni sul tema che sono state rievocate, mi piace citarne una, di un grande poeta, spirito libero, tormentato e controverso, che nel comunismo, pur da posizioni eterodosse ed eretiche, ha sempre creduto. Mi riferisco a Pierpaolo Pasolini, il quale, nel 1974, così scriveva: “Il PCI è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante”.
Questa dello scrittore non fu, evidentemente, un’analisi politica o culturale, ma piuttosto una dichiarazione di fede. In quanto tale, essa sfugge a un giudizio su quanto fosse giusta o sbagliata, perché le religioni non sono mai né giuste né sbagliate: chi ci crede, ci crede e basta. Ma questa frase, se ben sintetizza un senso di appartenenza e di identità che ha segnato la vita di milioni di italiani, dando loro la convinzione di impegnarsi per una giusta causa, ben esprime anche quella che è stata una delle principali colpe del comunismo (e, in esso, specificamente, del comunismo italiano, che ha pur avuto, certamente, dei tratti particolari), ossia il senso di superiorità, l’alterigia e l’autoreferenzialità. La religione comunista, così come descritta da Pasolini (del quale, detto per inciso, ho amato i commoventi romanzi “Una vita violenta” e “Ragazzi di vita” non meno di quanto ho detestato l’orrendo film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”), ci appare una religione profondamente intollerante, piena di disprezzo per ogni diversa fede.
Anche ammesso, per mera ipotesi, che le cose dette dal poeta fossero vere (e non lo erano affatto), resta qualcosa di profondamente sbagliato il fatto che gli abitanti di questo meraviglioso (ma anche maledetto: la solitudine è una brutta cosa) Paese, felice e diverso, ci abbiano creduto. Se uno è il migliore, in tutto e per tutto, spetta agli altri dirlo, mentre a lui conviene certamente pensare di essere pieno di difetti, e di dovere quindi impegnarsi per migliorare. Un soggetto perfetto che sia così graniticamente consapevole della propria perfezione non può non vivere male, ed essere condannato alle più cocenti delusioni.

Francesco Lucrezi