“Razza” e cultura

Da molti decenni, oramai, la Francia, terra d’immigrazione, soprattutto maghrebina, è luogo di un aspro confronto intellettuale, e quindi politico, sull’impatto di quest’ultima non solo sul piano socio-economico ma anche culturale. Il tema del razzismo, quindi, ha assunto una connotazione che va ben al di là della semplice dialettica tra interessi di una maggioranza e tutela dei diritti delle minoranze, implicando semmai ampie riflessioni su quelli che siano i modelli di cittadinanza e di Repubblica che dalle trasformazioni in corso potrebbero derivare per l’intera collettività nazionale. Pierre-André Taguieff, intellettuale, sociologo e storico delle idee politiche e sociali, nonché direttore di ricerca al Centro nazionale francese per la ricerca scientifica e docente all’Istituto di studi politici di Parigi, è da molti anni impegnato sul versante dell’analisi scientifica del razzismo. Di tutte le questioni, le diatribe e i confronti che attraversano il campo laico e repubblicano della discussione, ne è spesso protagonista. La sua personale biografia, culturale come politica, è tanto vivace quanto, a tratti, quasi contraddittoria. Soprattutto per coloro che gli hanno contestato l’ipotetico eclettismo di certe scelte intellettuali, a partire da una netta posizione a favore d’Israele, spesso in Francia letta polemicamente. Di sé dice d’essere un repubblicano di sinistra mentre da certuni, sia tra i suoi critici che non, è descritto come un liberale dai tratti conservatori sul piano valoriale e un approccio progressista rispetto all’orizzonte politico. Qualsiasi giudizio in merito non può tuttavia esulare dalla conoscenza del dibattito che da molti anni è in corso nel Paese rispetto al trittico cittadinanza-integrazione-identità, quasi che esso avesse sostituito quello rivoluzionario dell’eguaglianza-fraternità-libertà. Taguieff vi è parte integrante, operando sulla materia dell’immaginario razzista ma anche rispetto al tema dei processi di costruzione delle appartenenze simboliche e politiche che fanno da tessuto connettivo alle società postindustriali. Qualche suo dato biografico può quindi aiutare a capire come nella sua personale traiettoria si innestino elementi di un più generale percorso compiuto da una parte della intellettualità d’oltralpe. Benché non abbia origini ebraiche e sia nato in Francia nell’immediato dopoguerra, figlio di un russo e di una donna di origini polacche, è sempre stato prossimo alla cultura semita, in tutte le sue più sfaccettate manifestazioni. Di essa ne ha subito i molteplici influssi, consolidati anche da frequentazioni, già negli anni degli studi, con coetanei ebrei e dalla lettura di autori provenienti dal mondo aschenazita. A metà degli anni Sessanta, mentre si specializza nei campi della linguistica, della semiotica e della filosofia, ha modo di militare culturalmente nell’ampio e variegato universo dell’estrema sinistra francese, per poi collocarsi nell’area situazionista, in una miscela di marxismo eterodosso, rimandi all’anarchismo, simpatie per il luxemburghismo ma anche attivismo culturale e fascinazione per il surrealismo. Non era l’unico, all’epoca, prima che la diaspora degli intellettuali «engagés» concorresse da un lato alla nascita dei «nouveaux philosophes» e dall’altro a tortuosi percorsi di revisione, conversione se non di rifiuto e diabolizzazione delle proprie militanze trascorse. Rimane il fatto che Pierre-André Taguieff in quel lungo periodo di tempo coltivò la sua passione per due autori, Gilles Deleuze e Frederich Nietzsche. Da quelle premesse gli derivò poi l’adesione ad alcuni soggetti della galassia antirazzista, particolarmente presente nella Francia post-coloniale, che andava recuperando a proprio beneficio, con gli anni Settanta, la crisi e il “riflusso” della partecipazione. Così, quindi, con il Movimento contro il razzismo e per l’amicizia tra i popoli (il Mrap) o per la Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo (la Licra). Segnatamente, basti ricordare che una parte di queste organizzazioni è non da oggi contestata per un approccio particolarista alle grandi questioni dell’integrazione e della coesione sociale, così come per una visione esclusivamente culturale (le appartenenze identitarie) dei conflitti che attraversano la Francia e lo stesso continente europeo. Con gli anni Ottanta e Novanta Pierre-André Taguieff prosegue su due tracciati: sul piano professionale va consolidando il suo ruolo di docente; sul versante culturale e scientifico si adopera invece come consulente di rango per SOS Racisme, dirigendone l’Osservatorio sull’antisemitismo nonché collaborando anche con la Commissione nazionale consultiva dei diritti umani, sempre sui temi del razzismo. Anche in tali vesti, divenne quindi consigliere politico di Jean-Pierre Chevènement, quest’ultimo personaggio di rilievo del socialismo francese, più volte ministro, alternativamente soprannominato «Che» (Guevara) oppure «gollista rosso», per la miscela di nazionalismo, progressismo ed euroscetticismo che ne accompagna le prese di posizione pubbliche. Alcune vicende hanno connotato la traiettoria dello studioso negli anni più recenti: a fronte del suo inesauribile (ed inesausto) impegno sul versante dello studio dell’antisemitismo, il posizionamento politico di Taguieff si è sempre più accentuato nel senso di una critica accentuata verso la destra così come nei confronti della sinistra storiche, evidenziando come solo la democrazia liberale possa preservare un concreto spazio di libertà per gli individui. Il fuoco della polemica, che attraversa anche i suoi lavori sull’antisemitismo, rimanda all’incontro e al confronto con le culture non europee, ossia con il bagaglio dell’immigrazione. Da una tale sensibilità sono quindi derivate alcune manifestazioni d’opinione, come la condivisione, nel 2005, di un «appello contro il razzismo anti-bianchi», promosso dal movimento Hashomer Hatzair e da Radio Shalom. Sottoscritto da diversi intellettuali – tra i quali il filosofo Alain Finkielkraut, il giornalista del Nouvel Observateur Jacques Julliard e il suo collega Ghaleb Bencheikh, il futuro ministro Bernard Kouchner, come anche il cineasta Elie Chouraqui (stigmatizzati da una parte dei loro critici come figure di establishment, espressione di una sorta di «blanchitude», di cui si dirà nelle righe a venire) – denunciava le aggressioni subite dai francesi di pelle bianca da parte di immigrati maghrebini, nel corso di diverse manifestazioni, ma anche e soprattutto all’interno delle scuole francesi, quei «territori perduti della Repubblica», come lo stesso Georges Bensoussan veniva definendo i licei delle periferie metropolitane. Di una tale conflittualità interetnica l’appello dava una lettura molto decisa, quelli di una sorta di razzismo simmetrico a quello esercitato contro le persone di colore, ma di segno esattamente capovolto. Al riguardo Finkielkraut parlò di «francofobia», a stabilire una sorta di parallelo con l’antisemitismo e l’islamofobia. «Ebrei e francesi sono messi alla berlina insieme», ribadiva il filosofo, mentre la negazione delle loro qualità umane «porta al peggio», pensando al ballottaggio tra Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen durante le elezioni presidenziali del 2002. Affermava il testo del documento: «si tratta di una questione di equità. Si è parlato di David, si è parlato di Kader ma chi parla di Sébastien?». Già in quegli anni la spaccatura tra l’associazionismo antirazzista andava delineandosi nettamente, trovando nella «questione islamica» un suo punto di non ritorno. La Lega dei diritti dell’uomo (la LDH), per voce dell’allora suo presidente Michel Tubiana, ammetteva una «dimensione razzista» in certe violenze ma la ricollegava all’«odio sociale» di cui gli immigrati sarebbero stati tra le prime vittime. Il Mrap indicava che «dietro queste violenze ci sono persone escluse […trattandosi] del prolungamento di altre violenze». L’ambigua, se non deleteria, figura di Dieudonné M’bala M’bala, il comico, polemista e poi “politico” dai tratti dichiaratamenti antisemiti, ispirato al suprematismo nero e all’antigiudaismo, aveva già fatto capolino sulla scena pubblica. Nel mentre, una parte del fronte antirazzista, legato alla rappresentanza delle componenti immigrate e alla valorizzazione del pensiero progressista, aveva recuperato il concetto di «blanchitude», ovvero di «bianchezza» in chiave fortemente polemica. L’espressione, in quanto neologismo introdotto nelle scienze sociali all’inizio di questo secolo, raccoglie alcuni risultati degli studi postcoloniali e di genere sulla teoria critica della razza, indicando nella condizione dell’uomo bianco, laddove questo eserciti un’egemonia sociale, culturale e politica nei confronti delle minoranze etnoculturali, il risultato di un’asimmetria di potere occultata sotto la finzione di una falsa naturalità, presentata quindi come un fatto di ordine biologico, quindi oggettivo, e non storico. Il dibattito, nato nel mondo anglosassone, stigmatizza la radice di costruzione mentale della “bianchezza”, intesa in quanto canone non solo estetico ma anche e soprattutto politico e sociale, utilizzato quindi per giustificare pratiche di dominio. La «blanchitude» incorpora in sé un secco individualismo, inteso come vera e propria ideologia nella quale si celebra la centralità dell’uomo bianco, le cui qualità deriverebbero dal possesso di cose materiali e dal controllo dell’ambiente naturale; accentuerebbe un forte orientamento alla competizione e alla determinazione nel vincere, con una marcata disposizione all’azione e al processo decisionale maggioritario (però solo laddove i bianchi costituiscano la maggioranza); incentiverebbe il ricorso ad un giustizia sul modello anglosassone, basata essenzialmente sulla tutela della proprietà e dei diritti legati al possesso di beni materiali; favorirebbe un’educazione formalistica e di calco inibitorio, dove gli individui vengono abituati a non manifestare le proprie emozioni e a non negoziare i conflitti interpersonali; si avvantaggerebbe del ricorso alle religioni cristiane, di matrice eurocentrica, come cornice valoriale egemonica, alimentando la sostanziale diffidenza verso i culti non giudaico-cristiani; si fonderebbe su un’elaborazione della storia collettiva che enfatizza la centralità dell’esperienza degli immigrati protestanti nelle Americhe, al pari del forte accento sull’Impero britannico, con il primato delle tradizioni occidentali, di origini greco-romana e giudaico-cristiana; sottolineerebbe il rimando ad un’etica dell’impegno di radice protestante, dove il lavoro è la chiave del successo mentre il fallimento è attribuito alla mancanza di sforzo soggettivo; in immediato riflesso, esprimerebbe una forte considerazione sociale della ricchezza, un’identificazione dell’individuo con il suo lavoro, il rispetto tendenzialmente acritico nei confronti dell’autorità pubblica; porrebbe quindi un’enfasi assoluta sul metodo scientifico, compreso il pensiero oggettivo, razionale e lineare, con rigide relazioni di causa-effetto, insieme ad una marcata attenzione per gli aspetti quantitativi; da ciò, quindi, anche una visione del tempo come risorsa all’interno di una logica quotidiana basata su orari rigidi, una marcata tendenza a pianificare il futuro, a cercare il progresso e ad aspettarsi «un domani migliore»; in tutto ciò sarebbe premiante l’idealizzazione dell’immagine della famiglia come struttura nucleare, con marito, moglie e un numero limitato di figli, che assolvono a ruoli ben definiti, legati alla rigidità dell’identità sessuale intesa essenzialmente come funzione sociale (il maschio si dedica alla produzione, la donna alle prassi della sfera riproduttiva, partendo dalla domesticità); infine, un’estetica basata sui canoni dominanti nella cultura europea, laddove la seduttività femminile è fondata essenzialmente sull’aspetto fisico e sulla condiscendenza alle aspettative maschili mentre il ruolo degli uomini è condizionato dalla loro capacità di status sociale, di potere e di prestazione economica. In questo dibattito, che in Francia ha preso progressivamente il largo a partire dai primi anni Ottanta, recependo sempre più spesso indicazioni e suggestioni provenienti da Oltreoceano, si è inserito nel corso del tempo lo stesso Taguieff e, più in generale, quell’ampio nucleo di intellettuali che sono andati confrontandosi sia con le trasformazioni del tessuto sociale europeo e francese, con il declino dell’organizzazione industriale e gli effetti di lungo periodo dei processi migratori, sia con il mutamento delle nozioni stesse di razzismo ed antirazzismo. Di questo, come di altro ancora, renderemo meglio il significato con un prossimo articolo.
(1-continua)

Claudio Vercelli

(28 febbraio 2021)