“Una sentenza benvenuta,
che riconosce la complessità”

La sentenza della Corte suprema d’Israele sulle conversioni: una decisione benvenuta e inevitabile.
Come riportato nel notiziario quotidiano Pagine Ebraiche 24 di ieri, dopo una lunga vana attesa che la Knesset districasse la delicata questione, la Corte suprema d’Israele ha deciso che chi si converte all’ebraismo attraverso i movimenti riformati o conservatori è ebreo a pieno titolo al fine di poter diventare israeliano secondo la Legge del Ritorno. Ciò era già stato riconosciuto da tempo per le conversioni effettuate nella Diaspora; ora la Corte ha esteso il principio alle conversioni effettuate in Israele da rabbini dei due movimenti, notoriamente osteggiati dal rabbinato ortodosso che in Israele ha una veste ufficiale.
La pretesa del rabbinato ortodosso, dentro e fuori Israele, di rappresentare l’unico ebraismo e di avere la parola finale su chi è o non è ebreo, e su come un non ebreo può convertirsi, è stata così smentita nel modo più autorevole possibile al fine del riconoscimento dello status di ebreo come presupposto della cittadinanza di Israele. Certo la Corte non si pronuncia in materia di Halakhah, su cui, in assenza di un sinedrio, il rabbinato ortodosso può mantenere il monopolio, seppure il dibattito al suo interno evidenzia una certa diversità di visioni e interpretazioni.
La Corte piuttosto dà atto che, a settanta anni dalla rinascita dello Stato ebraico, come nazione sovrana che ha realizzato il sogno sionistico del ristabilimento di uno Stato nazionale per il popolo ebraico, l’ebraismo non ha più una base solo strettamente religiosa. Essere ebrei oggi vuole dire riconoscersi anzitutto nel far parte del popolo ebraico, caratterizzato sempre meno dall’ortodossia tradizionale e sempre più da una identità complessa. Essa include, accanto alla identificazione religiosa, non necessariamente ortodossa, altre componenti dell’identità ebraica. In Israele la componente non religiosa prevale. La cittadinanza e la fedeltà allo Stato ebraico sono prioritari rispetto all’identificazione religiosa. Nella Diaspora i conservatori e riformati sono largamente la maggioranza; negare che attraverso le loro conversioni si possa entrare a far parte del popolo ebraico equivarrebbe a considerare ebrei solo chi fa parte della minoranza ortodossa. Una tesi sostenibile forse prima della Haskalah, al tempo dei ghetti. La Corte suprema legittima invece pienamente la realtà complessa, variegata e pluralista, dell’ebraismo contemporaneo che l’ortodossia rappresenta solo in parte.
Piaccia o non piaccia, la sentenza avrà effetti nella Diaspora e anche in Italia: chi è considerato ebreo dallo Stato d’Israele non potrà certo essere respinto dalle Comunità della Diaspora. Quanto all’Italia, la nostra organizzazione unitaria, imperniata a livello locale su comunità territoriali che raggruppano tutti gli ebrei e che si occupano di tutte le attività religiose, educative, sociali, culturali, rappresenta una singolarità quasi unica nel panorama mondiale. Si tratta del retaggio di un’antica tradizione, propria di un ebraismo piccolo e unitario, cui siamo rimasti attaccati. Oggi questa struttura comporta l’accoglienza di tutti coloro che nel comune sentire dell’ebraismo contemporaneo, largamente influenzato ormai da quanto avviene in Israele, sono considerati ebrei. Criteri più restrittivi di ammissione e partecipazione non potranno che portare a divisioni e scissioni.
Come ho avuto modo di scrivere in sede accademica (“L’Unione delle Comunità ebraiche italiane tra adesione all’ebraismo ortodosso e rappresentanza di tutti gli ebrei italiani: l’Intesa del 1987 è ancora attuale?”) sta al nostro buon senso mantenere il nostro sistema e quindi l’intesa con lo Stato italiano che riconosce all’Unione una rappresentanza unitaria ed esclusiva. Oppure sarà inevitabile prendere atto, dal mio punto di vista con rincrescimento, che la secolare convivenza sotto un unico tetto di un ebraismo profondamente laico ma a guida religiosa, se strettamente ortodossa (e le voci critiche del nostro rabbinato contro la sentenza non augurano bene), sarà diventata una contraddizione in termini.

Giorgio Sacerdoti, professore emerito Università Bocconi

(L’autore tiene a precisare che questo contributo è espresso a titolo personale e non coinvolge gli enti ebraici di cui è presidente)

3 marzo 2021