Machshevet Israel
La dialettica di rav Kook
Nel 1921, esattamente cent’anni fa, in terra d’Israele (da poco divenuta Mandato Britannico di Palestina) veniva istituito la Rabbanut ha-rashit le-Israel o rabbinato supremo, un organismo bicefalo perché condiviso ex aequo da un rabbino-capo sefardita e da un rabbino-capo ashkenazita. La prima massima autorità religiosa per i sefarditi fu rabbi Ya‘akov Meir (1856-1939) che prese il titolo di Rishon le-Zion: era un famoso talmudista e qabbalista che sosteneva la causa della lingua ebraica come idioma nazionale dell’am Israel. La sua controparte, primo rabbino-capo ashkenazita, fu rav Abraham Yitzchaq Hakohen Kook (1865-1935), noto semplicemente come rav Kuk o Kook, all’inglese: aveva anch’egli alle spalle studi talmudici e qabbalistici, ma emerse nel tempo anche come filosofo e poeta. Nativo della Lettonia, aveva studiato nella prestigiosa yeshivà di Volozihn; dopo aver impararto l’ebraico quotidiano da alcuni maskilim si avvicinò al sionismo religioso, ma ufficialmente non fece mai parte del movimento Mizrachi; nel 1904 fu chiamato come rabbino dalla piccola comunità ebraica di Jaffa, allora “il porto” della terra di Israele e lì avvenne il primo suo incontro con i chalutzim, i pionieri, in buona parte provenienti dalla Russia. Questi giovani erano pieni di ideali socialisti e, per lo più, avevano voltato le spalle alla fede e ai minhaghim dei loro padri. Erano fieri trasgressori dell’halakhah. Il dilemma di rav Kook fu: scomunica o dialogo? E se dialogo, su quali basi? E a quale scopo? Per rispondere con chokhmà ebraica a queste domande gli tornò utile la filosofia, che aveva studiato in Europa.
La Weltanschauung di rav Kook è ispirata a profonda dialettica storica e al primato della volontà, un misto di Hegel e Schopenhauer, per così dire. Sintesi degli opposti? In un certo senso, sì. Non va però sottovalutata la cornice mistica che gli permetteva di accordare non solo gli ‘opposti’ ma anche le ‘contraddizioni’, in una prospettiva organicista in virtù della quale la realtà si compone di elementi che solo in apparenza sono alternativi; considerati come un tutto, essi invece si esigono mutualmente e si integrano e si ricompongono. Gli opposti/contraddittori in questa situazione erano i membri religiosi ortodossi dello Yishuv e i giovani chalutzim venuti per lavorare e ‘redimere’ la terra biblica voltando le spalle alla miseria economica e alla subalternità culturale degli stetlach e dei ghetti della diapora. Una visione dialettico-organicista permise a rav Kook di vedere in quei ‘trasgressori dello shabbat’ il mezzo impuro attraverso il quale Dio avrebbe compiuto la sua purissima volontà di riunire il popolo ebraico nella terra di Israele e della Torà. Il sionismo secolare poteva ben essere uno strumento e una fase per l’avanzamento della malkhut ha-shammayim, del Regno. In fondo, non c’è una scintilla di santità anche nel più incallito dei peccatori? E la fede non è disponibilità al miracolo? Chi può escludere che prima o poi arrivi per tutti il momento della teshuvà? Inoltre ricostruire la terra di Israele era, per rav Kook, “un principio cardine della Torà” e a contatto con l’intrinseca santità di quella terra anche i chalutzim più atei si sarebbero contaminati… di santità. Da qui la disponibilità a venire incontro ai problemi agricoli di quei lavoratori, quando si pose il problema halakhico del rispetto delle norme dell’anno sabbatico (shmittà).
Come è facile intuire, ricevette grandi critiche sia dal mondo charedì, in particolare dal rabbino Joseph Chaim Sonnenfeld, sia dal mondo chassidico, ad esempio dall’Admor di Gur, Abraham Mordechai Alter: essi sostenevano che, se il Signore vede il cuore, noi vediamo solo le azioni umane e se le azioni sono da condannare, bisogna condannare. Si attenevano al principio dell’evidenza, che è fondamentale nel giudizio halakhico (e rav Sonnenfeld era un grande halakhista). Ma rav Kook era un pensatore dialettico, e si atteneva a un criterio di contro-evidenza di natura mistica: lo spirituale eleva il materiale come l’anima eleva il corpo e lo santifica, dunque bisogna stare attenti nel ‘condannare’ le scorze, se non vogliamo spegnere la scintilla che contengono. Il primo rabbino-capo ashkenazita era animato da una visione profetica capace di sogno: “Apparirà la luce di Israele e stabilirà un mondo nuovo tra i popoli dallo spirito nuovo” e rivendicava la forza dirompente delle ‘orme del messia’. Rav Kook, scrive Aviezer Ravitzky, “cercò di capire in questa chiave anche le bufere sociali e i cambiamenti culturali e ideologici del suo tempo in Europa: il nazionalismo, l’insurrezione socialista e il crollo delle autorità religiose sia nel popolo ebraico sia fra le nazioni”. Persino la prima guerra mondiale gli sembrò l’equivalente della qabbalistica ‘rottura dei vasi’ e delle talmudiche ‘doglie del parto’, necessarie per la rinascita e la ricostruzione. È il lato più discutibile del suo misticismo dialettico, che implicava (e prediceva) una redenzione deterministica. Resta, ammirevole, la sua visione grandiosa – avrebbe voluto persino reintrodurre il sinedrio – che ha lasciato il segno fino ad oggi nella vita dello Stato di Israele. Una visione che non ha smesso di sollecitare sia il pensiero sia l’azione.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(4 marzo 2021)