Il vitello d’oro

Va, scendi dal Monte…” (Shemòt 32;7). L’episodio culminante della nostra parashà è il racconto del “ma’asè ha ‘eghel – il fatto del vitello d’oro”. Il popolo perde la speranza sia nel Signore che in Moshè che da quaranta giorni e quaranta notti si trova sul Monte Sinai a ricevere la Torà e costringe Aharon a costruire un vitello d’oro, da adorare e sostituire a D-o.
L’espressione sopracitata di D-o a Moshè indica, non tanto il disprezzo per questo fatto spregevole, quanto quello che deve essere il rapporto fra Moshè – il rav del popolo di Israele – e il popolo stesso.
Nel Talmud (Berakhot 32;b) si spiega l’espressione divina “va, scendi” dicendo:
Scendi dalla tua grandezza, dal “trono rabbinico” e va in mezzo al popolo a parlare con esso. Il Talmud continua dicendo: “Fintanto che il popolo ti segue e osserva le mizvot tu sei il loro rav, ora che si sono macchiati di una grave colpa scendi, perché non hai più motivo di essere rav – grande”. Il fatto si spiega nelle lettere che compongono la parola “red – scendi”; c’è una resh e una dalet.
Nella parola “echad – unico” che si trova nell’espressione “Shemà israel A’ Elo-henu A’ echad – Ascolta Israele il Signore e nostro D-o il Signore è unico” (Devarìm 6;4), la dalet di echad è scritta molto più grande del resto; così come la resh della parola “acher – altri” del versetto “lo tishtachavé le-el acher – non inchinarti ad altre divinità” (Shemòt 34;14) è scritta più grande delle altre lettere.
Tutto questo affinché nel proclamare l’unicità di D-o non ci si possa confondere tra le due lettere che, D-o non voglia, affermerebbero così l’esatto contrario del loro significato.

Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna

(5 marzo 2021)