La sentenza della Corte

Quando si parla di Israele molti tendono a esaltare o biasimare un paese astratto, molto diverso da quello reale. Lo stesso si può dire per chi loda o critica elementi specifici, come leggi o sentenze, che, nati in un certo contesto e da specifiche esigenze, sono spesso difficili da inquadrare e si prestano poco all’idealizzazione o alla demonizzazione. La Legge del Ritorno è sicuramente uno di questi elementi: nata dall’evidente necessità di garantire una casa sicura a chiunque sia perseguitato a causa del’antisemitismo, la legge considera ebrei, al fine dell’attribuzione della cittadinanza israeliana, anche molti che non sono ebrei dal punto di vista dell’halakhah. Dunque la Corte Suprema israeliana con la sua recente sentenza non ha avuto alcuna pretesa di esprimersi su questioni di halakhah, che ovviamente non sono di sua competenza, ma solo sull’interpretazione di una legge che esiste dal 1950. Personalmente non capisco cosa ci sia di così particolarmente nuovo da meritare commenti apocalittici o trionfalisti. Tanto più che la sentenza non ha neppure introdotto dal nulla una variante significativa alla legge (l‘accettazione delle conversioni non ortodosse), ma si è solo limitata ad applicare alle conversioni non ortodosse avvenute in Israele lo stesso criterio che già da molti anni era utilizzato per quelle avvenute nella diaspora, sicuramente ben più numerose. Dunque non riesco a capire come una simile decisione, che mi pare rispondere alla logica più ancora che a una qualche ideologia, possa essere così catastrofica per il popolo ebraico, o, per lo meno, non capisco come possa essere considerata una novità così rilevante se c’era comunque già la possibilità di andare a convertirsi all’estero. O sbaglio? C’è qualcosa che mi sfugge?
Forse sì. Forse il mio ragionamento non tiene conto del valore simbolico che a volte certe leggi o sentenze possono avere al di là delle loro conseguenze reali. E allora forse questa decisione della Corte Suprema israeliana diviene importante nel momento in cui viene percepita come tale, da chi la loda o da chi la biasima. E forse può essere significativo il fatto stesso che un determinato problema venga posto. Allora vale la pena di pensarci. Perché proprio adesso? Per decenni una maggioranza schiacciante di israeliani, anche se personalmente non osservanti, non ha avuto particolari problemi ad accettare di essere parte dell’ebraismo ortodosso (la stessa situazione presente qui in Italia). Perché adesso alcuni non si sentono più a loro agio in quel mondo in cui sono nati e cresciuti? Forse è questo il vero problema su cui vale la pena di discutere. Per capire Israele, ed anche noi stessi.

Anna Segre

(5 marzo 2021)