Ultima notte ad Alessandria

«Di che nazionalità sei?»
Non ci avevo mai pensato, ma la risposta mi sembrava così ovvia che non capivo perché me lo stesse domandando.
«Francese naturalmente» […]
«Tu non sei francese, io sono francese» mi disse lo zio Isaac, la voce roca in cui affiorava una sorta di velenoso sarcasmo. «Tu sei italiano, anzi, nemmeno: turco per la precisione!»

Di dove sono esattamente i personaggi che popolano Ultima notte ad Alessandria (1995) di André Aciman, a quale identità appartengono? Probabilmente non lo sanno con precisione neppure loro.
La famiglia paterna di Aciman arrivò ad Alessandria d’Egitto da Costantinopoli nel 1905, ma millantava lontani legami con Livorno, “sede ancestrale della maggior parte degli ebrei del Levante”, dove si erano stabiliti gli ebrei in fuga dalla Penisola Iberica, così molti di loro erano diventati almeno sentimentalmente italiani. La loro lingua però era il francese, un francese così diverso da quello di “Radio Montecarlo”, e il più delle volte mischiato con l’italiano, il ladino, il turco, il greco e l’arabo. Lo stesso arabo era diverso dal moderno arabo vernacolare d’Egitto e ancor di più da quello classico, ma una sorta di lingua franca annacquata con termini europei con il quale i locali comunicavano con i mutamassirun.
I Mutamassirun “gli egittianizzati” erano i cittadini stranieri d’Egitto i quali abitavano Alessandria nel XIX e XX secolo, erano soprattutto greci, armeni, francesi, italiani, inglesi, ebrei, ma persino maltesi. Si trattava di un’importante componente della società egiziana di cultura europea (o meglio europeizzata) e per lo più appartenente alla borghesia imprenditoriale, molti di loro, come lo stesso padre di Aciman, erano proprietari di fabbriche o comunque praticavano professioni liberali. Con la caduta della monarchia e l’ascesa di Gamal Nasser, e soprattutto con la Crisi di Suez del 1956, la maggioranza dei mutamassirun furono pressati con ogni mezzo a lasciare il paese, i loro beni vennero statalizzati, e quando ciò non accadeva volontariamente, seguivano arresti o espulsioni forzate. Il nazionalismo nasseriano – come tanti altri – non poteva tollerare una dimensione cosmopolita, ogni straniero era percepito come un nemico, una quinta colonna, un agente al servizio di potenze straniere, e dunque una spia. Gli ebrei erano ancor più sospetti a causa della guerra con Israele, per quanto molti di loro fossero disinteressati al sionismo, e guardavano di più all’Europa, o altri i quali avevano supportato persino il nazionalismo arabo-egiziano – come René Qattawi, leader della comunità ebraica del Cairo, o il militante comunista Henri Curiel. Va da sé che degli 80mila ebrei presenti in Egitto ad inizio Novecento, i quali non erano soltanto mutamassirun ma anche autoctoni presenti nel paese da quasi 3mila anni, non ne rimase che un centinaio alla fine dello stesso secolo.
La famiglia raccontata nel romanzo autobiografico di Aciman è un nucleo in gran parte assimilato e secolarizzato, perfettamente integrato nella realtà cosmopolita alessandrina. Il loro ebraismo trapela raramente, se non a livello mnemonico e in qualche rituale ripetuto svogliatamente, tanto che pur di rimanere nel paese alla fine del libro valutano addirittura la conversione. Non è presente una dimensione comunitaria, non vengono mai citati rabbini o sinagoghe. Eppure per quanto l’antisemitismo sembri non essere la ragione principale del loro esodo e non compaia mai troppo esplicitamente, esso divenne pregnante all’interno della retorica nazionalista nasseriana, nell’istruzione e nella stampa dell’epoca l’ebreo era “uno tra i mali peggiori”, la rappresentazione stessa dei “tentacoli del potere straniero”.
Come si può costruire dunque un’identità in seguito a una minaccia esterna che improvvisamente ti domanda chi sei e a che cosa appartieni? La famiglia di Aciman giunse in Italia e qui acquisì la cittadinanza, si spostò poi in Francia, e successivamente negli Stati Uniti. L’identità di Aciman è forse perfettamente alessandrina, perché ad essa e al suo cosmopolitismo fa riferimento, ma è riflessa esclusivamente al passato e appartiene a un luogo che di fatto non esiste più. Come nel sefardismo e nell’identità degli ebrei iberici che dopo l’espulsione trovarono rifugio nei Balcani o a Livorno e in altri luoghi del Mediterraneo e del Nord Europa per autodefinirsi ci si collega a un’età e a un mondo completamente perduto.
Ya Hasra, “oh amarezza”, questa parola presente nell’arabo tunisino – e nel giudeo-tunisino – viene sempre usata per indicare la nostalgia di un luogo e dei suoi bei tempi andati. Ci sono innumerevoli portali sul web a proposito del “Maghreb d’antan” dove utenti di ogni dove e di ogni età si ritrovano a rievocare ricordi, foto, e una sorta di “patrimonio immateriale”. Non si tratta di una nostalgia per un passato coloniale o appena post-coloniale, ma piuttosto per un mondo nel quale apparentemente la nazionalità non era come per il giovane André il primo dei propri pensieri.

Francesco Moises Bassano

(5 marzo 2021)