Ancora sulla “razza” e la cultura

In Francia il dibattito delle idee, ma anche e soprattutto quello sulla società, negli ultimi quarant’anni ha precorso una serie di tendenze che sono poi divenute dominanti in tutte le società postindustriali, Italia compresa. L’effetto combinato tra mutamento sociale ed economico, trasformazioni culturali, cambiamenti indotti dalla dismissione delle attività industriali a favore di una economia sempre più digitalizzata, insieme ai flussi migratori e agli andamenti ondivaghi dei processi di integrazione europea, hanno concorso a ridisegnare non solo l’agenda delle priorità collettive ma anche il modo in cui esse vengono formulate. Ovvero, parole, linguaggi, posizionamenti politici e costrutti ideologici. Non a caso il fuoco del confronto si è misurato sempre più spesso con l’insieme delle questioni relative al rapporto tra diritti civili, e quindi al riconoscimento delle identità individuali e di gruppo, e i diritti sociali, in questo caso da intendersi come insieme di norme destinate a garantire la giustizia sociale. Il tema di come essere uguali nella diversità ha assunto, in molti tornanti, una connotazione fortemente polemica, registrando non solo le prevedibili differenze di giudizio ma anche – e soprattutto – crescenti contrapposizioni di principio. Il fatto stesso che le questioni sociali più pressanti (lavoro, reddito, distribuzione e fruizione dei servizi sociali, sanità, previdenza e così via) si debbano confrontare con le crescenti difficoltà di un sistema centralistico, ispirato ad un patriottismo costituzionale e repubblicano, a fronte di una sempre più accentuata segmentazione della medesima società, indica come la discussione non verta su materie di lana caprina, semmai chiamando in causa i fondamenti del comune convivere. La spaccatura tra un’idea di società composta di persone distinte e diverse e tuttavia accomunate da una comune appartenenza (la cittadinanza laica e secolarizzata), di contro ad un sistema di arcipelaghi comunitari – dove le diversità etnoculturali non sono solo un aspetto della persona ma si trasformano in modalità di separazioni tra interi gruppi sociali, riordinando le condotte molto spesso secondo logiche di secca conflittualità – è quindi il fuoco di un tale quadro problematico. L’uso politico della religione si inscrive in questo campo decisivo della trasformazione sociale, concorrendo a modellare le identità di gruppo. Il più delle volte intese come vere e proprie essenze immutabili, cristallizzate, quindi non soggette ad alcuna accettabile contrattazione. Una sorta di fotografia dell’esistente, dove le istituzioni della cittadinanza faticano a tenere dietro ai mutamenti delle società. Nel mentre si andava delineando un tale quadro di riferimento, Pierre-André Taguieff, attivo partecipe del dibattito, ha proseguito le sue ricerche, partite da Nietzsche e dal suo impatto sul pensiero politico occidentale, arrivando a studiare il fenomeno politico ed intellettuale della «Nouvelle Droite» così come il «nazional-populismo» del Front National. Anche in questo caso non erano mancate le polemiche, vedendosi accusare dal quotidiano Le Monde, in un «Appello alla vigilanza», insieme ad altri intellettuali come Serge Latouche, Alain Caillé, Ignacio Ramonet, di avere collaborato con riviste ed editori di destra. In Francia è prassi diffusa redigere pubblicamente liste di amici o avversari sulla scorta del loro posizionamento culturale, per poi lanciare interdizioni in forma di richiami all’osservanza di appartenenze politiche, più o meno consolidate e condivise. Un medesimo biasimo gli era derivato dalla pubblicazione degli studi «Sulla Nuova Destra» (usciti in Francia nel 1994 e in Italia una decina d’anni dopo). Benché Taguieff abbia sempre contestato l’impostazione differenzialista e identitaria che è alla base del pensiero di autori come Alain de Benoist, il maggiore teorico della Nuova Destra, le sue interlocuzioni con quest’ultimo, sia pure a distanza di sicurezza, gli sono valse una rinnovata accusa di collusione culturale con l’oggetto dei suoi studi. La denuncia dei suoi critici rimanda a ciò che costituirebbe una sorta di irrisolta identificazione e inconfessabile simpatia, sia pure tra le righe, nei confronti di un neoconservatorismo che – da tempo – si è candidato ad essere, oltre che area politica, anche piattaforma culturale. In altre parole, l’attenzione che egli offre celerebbe una condiscendenza di fondo. A questi rilievi, lo studioso ha sempre risposto seccamente, definendo le critiche come frutto di pigrizia intellettuale e di cristallizzazione nel giudizio. Rispetto all’evoluzione del Fronte Nazionale di Le Pen, dagli anni Ottanta ad oggi, Taguieff ha cercato di emancipare le riflessioni dagli approcci più consolidati, ancora fortemente debitori di un’impostazione interpretativa che ne riconduceva l’impatto al solo radicalismo di destra, a sua volta mera estensione del fascismo storico e del collaborazionismo. Ad essa, infatti, contrappone la categoria del nazional-populismo, cogliendo la rielaborazione della piattaforma ideologica che la formazione, già neofascista, da tempo va formulando. Nel complesso, mentre lo studioso è andato ordinando il suo complesso e stratificato lavoro, articolandolo intorno alle metamorfosi del razzismo e dell’antisemitismo in quanto radici di una parte del radicalismo politico, come alle dinamiche socio-politiche francesi, le reazioni dei suoi critici si sono intensificate. Già nel 2002, infatti, era stato etichettato come «neoreazionario», un termine coniato da Daniel Lindenberg ed esteso ad Alain Finkielkraut, André Glucksmann ma anche, con il trascorrere dei tempi, a Michel Houellebecq e ad altri ancora. Si trattava dei cascami della lunga polemica, a tratti velenosa, comunque sempre astiosa poiché fortemente personalizzata, che già venticinque anni prima aveva diviso i «nuovi filosofi» dalla sinistra che si riconosceva intorno a Le Monde, a Le Nouvel Observateur e ad una rilevante fetta della pubblicistica e del mondo accademico francese. Se negli anni Settanta il nucleo del conflitto ruotava intorno al discorso sullo stalinismo e sul totalitarismo ora l’asse si è spostato sul nesso tra antirazzismo e politiche dell’integrazione nei confronti dell’immigrazione musulmana. I critici hanno spesso evidenziato quello, che a pare loro, non è solo un esercizio di semplificazione interpretativa, al limite della banalizzazione più triviale, ma anche il manifestarsi, sotto le spoglie di una lettura problematica del presente, della rilegittimazione di categorie del pensiero della destra reazionaria. Lo scambio di idee nei fatti ha spesso superato i limiti della critica, per trascendere nell’invettiva personalistica. Nelle sue repliche Taguieff ha ripetutamente affermato che i suoi contestatori – nell’accomunare impropriamente intellettuali dai percorsi culturali anche molto diversi, mettendoli infine alla berlina – si rivelavano l’essere esponenti di un circuito progressista debitore del «politicamente corretto» anglosassone, ovvero espressione, in quanto «conformisti felici», di un sodalizio liberale e libertario connotato dalla cristallizzazione dei modi di pensare la realtà. Di lì a non molto avrebbe infatti parlato, in un libro firmato con Matthieu Baumier, di «stalinizzazione degli spiriti». Al netto delle polemiche pubbliche, peraltro non separabili dall’evoluzione dei suoi studi, Taguieff ha tuttavia garantito un vigoroso apporto alla riflessione sull’antisemitismo, partendo dal lascito dello storico Léon Poliakov e del sociologo Norman Cohn. Di fatto, ne è un sistematizzatore, dividendosi tra ricerca e divulgazione. Indiscutibile, in tutta la sua riflessione, è lo sforzo di mantenere ed alimentare un approccio scientifico ai temi che lo vedono in prima linea. La sua opera più importante, in sé voluminosissima, in una produzione bibliografica divenuta oramai impressionante per la sua enciclopedica estensione, rimane «La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo», pubblicato in Italia nel 1994 ma uscito in Francia già sei anni prima. Due sono le forme di razzismo identificate come dominanti, alle quali corrispondono logiche diverse se non opposte. La prima è quella dell’eterofobia e del falso universalismo, nella quale le differenze sono negate a favore dell’assimilazione coatta ad un unico modello di riferimento. La seconda, invece, rinvia all’eterofilia, legata al particolarismo e, in immediato riflesso, al differenzialismo, che postula la separazione dei gruppi umani per preservarne i cosiddetti «tratti originari». La risposta antirazzista, per lo studioso non meno illusoria di quella razzista, consiste in un gioco di specularità inverse: nel primo caso rinvia all’esaltazione di un relativismo culturale, che si trasfonde nella politica delle «identità», mentre all’eterofobia subentra l’agire assimilazionista, fondato su una fittizia condivisione di comuni «valori». Una sorta di dialettica dei chiasmi, ossia di ribaltamenti ideologici, dove il dato comune rimane l’incapacità di cogliere la mutevole morfologia delle nostre società, a favore di un essenzialismo, nel quale gli individui sono incapsulati dentro fittizie appartenenze. Come autore di numerose opere in materia, torna frequentemente ad interrogarsi sull’attualità dell’antisemitismo. I capisaldi, che si rinnovano anche nelle riflessioni più recenti dell’autore, dove sono indagati nessi, continuità ma anche discontinuità tra antigiudaismo religioso e antisionismo, tra giudeofobia (termine prediletto dall’autore e come tale utilizzato in quanto referente di significato) e antisemitismo moderno, rimandando quindi all’immaginario della teoria del complotto, di cui «I protocolli dei savi anziani di Sion» ne costituiscono l’architrave epistemologica. Riecheggiano ripetutamente i richiami alla «neogiudeofobia» (espressione che era titolo di uno studio che Taguieff licenziò già nel 2002), laddove una chiave di interpretazione dell’antisemitismo contemporaneo viene identificata nell’avversione contro il sionismo, inteso non come il movimento nazionale ebraico bensì in quanto sembiante ideologico sotto il quale l’ebraismo celerebbe la sua imperitura vocazione al dominio del mondo. Per lo studioso sussiste un rapporto di stretta derivazione idealtipica tra l’antisionismo sovietico, sviluppatosi già ai tempi di Stalin e poi recuperato dopo la Guerra dei sei giorni del 1967, e l’attuale dottrina giudeofobica praticata dai movimenti del radicalismo islamista. Con l’aggravante che il rigetto del sionismo in quanto «complotto mondialista» di impronta semitica, sarebbe ben più di un corredo politico, costituendo semmai una sorta di subcultura presente un po’ in tutto il mondo musulmano, e non solo in esso, trattandosi soprattutto di un grande «alibi» rispetto all’incapacità di formulare diversamente i grandi problemi delle agende politiche nazionali e di quella internazionale. L’accostamento tra antisionismo e antisemitismo gli è valsa da tempo una nuova bordata polemica, che ad oggi non si è per nulla esaurita. All’accusa di indebita confusione tra fattispecie distinte, ossia di mancanza o difetto di scientificità, si accompagna quella di essersi trasformato in un difensore a prescindere delle politiche dei governi israeliani. Due obiezioni secche, alle quali Taguieff ha sempre risposto duramente, avendo peraltro sottoscritto le posizioni a favore della nascita di uno Stato palestinese. Ne «L’antisemitismo» (un volume edito in Francia nel 2015 e tradotto in Italia l’anno successivo), al netto di critiche e polemiche correnti, l’autore si interroga sulla complessità del fenomeno sociale giudeofobico, concependolo nel medesimo tempo come un fattore di evidente esclusione per coloro che ne sono destinatari, in quanto vittime, ma anche di integrazione per i soggetti che ne beneficiano degli effetti a carico altrui. Esclusione di una minoranza “densa”, gli ebrei, tale per gli elementi di reciprocità e di soggettività culturale e identitaria, come anche per il grado di integrazione dentro la società, di contro alla difficile coesione di maggioranze altrimenti a rischio di tenuta nei meccanismi di coesione sociale. In altre parole, la prassi pregiudiziosa, comunque stigmatizzante, ha una funzione specifica, richiedendo di essere analizzata e interpretata quand’essa si rivolga essenzialmente non solo a coloro che ne fanno le spese, quindi le vittime, ma anche a quanti ritengono di poterne ottenere un ricavo rispetto ai propri interessi, ovvero i razzisti medesimi. Il punto di vista di Taguieff, per intenderci, più che “etico”, ossia esterno al fenomeno osservato, intende semmai essere “emico”, calandosi quindi dentro il percorso razzista in quanto tale per meglio coglierne la reale fisionomia e l’effettivo spessore. Da questo angolo visuale, la giudeo fobia – comunque, ovunque e contro chiunque si esprima – non è mai un fatto occasionale, fortuito, momentaneo bensì il prodotto di un’evoluzione politica che, in età contemporanea, si intreccia strettamente ai processi di produzione della cittadinanza. Ciò riflettendo Taguieff riprende le suggestioni di Jean-Paul Sartre quand’egli diceva che l’antisemitismo: «è al tempo stesso passione e una concezione del mondo». Eravamo nel 1954 ma sessantacinque e più anni dopo la questione sembra riproporsi in tali termini. Ai due capi del problema identificati dal filosofo francese si potrebbe aggiungere un terzo elemento, quello della tradizione nera, una pedagogia diffusa, a forte impatto sociale, che uno studioso del radicalismo di destra e delle subculture fasciste come Francesco Germinario definisce nella sua qualità di «ideologia» contemporanea (si veda al riguardo il suo volume «Antisemitismo. Un’ideologia del Novecento», uscito per i tipi della Jaca Book nel 2013 al pari delle opere successive). L’aspetto più problematico ed urgente, come anche quello maggiormente aperto a considerazioni non ancora conclusive, rimane comunque quello che l’autore affronta quando stabilisce un nesso robusto tra antisemitismi (il plurale non è per nulla casuale) e antisionismo. Vale quindi la pena di fare ancora un inciso. Poiché esso ci rinvia alla lotta al «giudaismo mondiale», quando la strumentalizzazione dell’antirazzismo (“siamo tutti eguali ma gli ebrei restano, nel loro intimo, irriducibilmente diversi”) si incontra con la demonizzazione del sionismo, in quanto espressione di una potenza occulta internazionale, nel nome, molto spesso, dello smascheramento del «disegno imperialista» che ad esso soggiacerebbe. Sul verosimile tracciato che dall’avversione contro gli ebrei, come individui e in quanto comunità diasporica, transita verso il rifiuto dello Stato di Israele nella sua natura di «ebreo collettivo», altro plausibilmente si aggiungerà negli studi e nelle analisi a venire. Non solo per parte di Taguieff. Rimane l’humus di fondo, già presente nelle diverse manifestazioni di antisemitismo storico, dove la “diabolizzazione” del “giudeo”, la visione manichea e dicotomica dei processi storici, l’appello ad una lotta totale contro il «male satanico», il catastrofismo, l’apocalitticismo si traslano nell’enfasi della denuncia della intollerabile abusività storica dell’«entità sionista». L’autore ci sollecita quindi a riflettere sul carattere pluridimensionale dell’antisemitismo, sulla circolarità dei suoi costrutti pseudo-razionalisti, sulla sua persistenza nel corso del tempo, sull’intensità ma anche e soprattutto, come già rilevava Furio Jesi, sulla sua natura di macchina mitopoietica, che genera e rinnova il mito (rassicurante) dell’ebraismo e degli ebrei come causa del male nel mondo.
(2/fine)
Claudio Vercelli