L’intervista al direttore di ricerca Swg “Italia, la svolta passa dal realismo”
Sfogliando un anno di indagini e grafici di Swg si comprende l’evoluzione della pandemia e dei suoi effetti sull’opinione pubblica italiana. A cadenza settimanale l’autorevole istituto triestino ha fotografato l’evolversi delle nostre paure, preoccupazioni, speranze. Una carrellata di immagini che, come in un film in stop-motion, raccontano come dal febbraio 2020 i nostri comportamenti abbiano subito decisivi mutamenti. Non a caso Swg ha scelto di intitolare il suo radar sulla pandemia: “Niente sarà come prima”. Nel corso di questa difficile crisi senza precedenti, la redazione di Pagine Ebraiche ha costantemente fatto riferimento a queste indagini per capire i sentimenti di un paese trascinato per primo in Occidente nel vortice della pandemia. Attraverso le analisi del direttore di ricerca dell’istituto, Riccardo Grassi, abbiamo osservato la trasformazione di numeri e dati di una crisi che per molti inizialmente sembrava solamente passeggera. E invece il virus continua a segnare le nostre esistenze, ha cambiato il nostro modo di vivere, le nostre abitudini, la nostra idea di casa, di città, di trasporti, di relazioni, di politica. A distanza di un anno, abbiamo chiesto a Grassi di aiutarci a ricapitolare cosa è successo e anche a capire cosa rimarrà di queste grandi trasformazioni nel nostro domani.
Come è iniziato il progetto del radar incentrato sulla crisi sanitaria?
Appena è iniziata la prima avvisaglia della pandemia abbiamo avuto la netta percezione di essere di fronte ad un evento con effetti potenzialmente dirompenti. E quindi abbiamo subito avviato una strategia di monitoraggio ancor più dettagliata, mettendo in piedi un osservatorio giornaliero per capire come la pandemia stesse incidendo sull’opinione pubblica e sui comportamenti degli italiani. Così, fino alla fine di maggio, ogni giorno abbiamo fatto rilevazioni, fino a che non si sono stabilizzati i dati e siamo passati a rivelazioni settimanali.
Qual è il dato che vi è parso subito chiaro?
Una generalizzata incertezza. Questa situazione ha esposto un po’ tutti noi a qualcosa di nuovo e inaspettato. Nessuno di noi era abituato o preparato a una pandemia. Nessuno sapeva se le cose si sarebbero messe a posto. E ancora adesso, nessuno lo sa. Tanto è vero che l’incertezza è rimasta comunque il sentimento prevalente in tutte le rivelazioni. Poi ci sono stati alcuni alcuni elementi che invece sono cambiati in maniera importante nel corso dei primi mesi.
Ad esempio?
Possiamo distinguere direi diverse fasi. La prima è quella di marzo: paura, speranza ma anche tanta tristezza. Subito sentimenti molto molto forti dal punto di vista emotivo, ma con un atteggiamento di fondo positivo, proseguito fino a giugno. Fin qui almeno un terzo dei nostri intervistati, pur scoprendo una nuova vulnerabilità, speravano in un risolversi della situazione nel breve periodo. Da giugno fino all’autunno la speranza è diminuita drasticamente e si è capito che la pandemia sarebbe durata ancora a lungo. E così è tornata la tristezza, accompagnata da un’importante crescita della rabbia, che ha registrato il punto più alto proprio di recente, con la crisi di governo. Non si capiva cosa stesse accadendo, il perché di una crisi in una fase così delicata. E la rabbia montava.
Ora questa rabbia si è calmata?
Al momento c’è attesa, e i sentimenti positivi come la gioia sono veramente al minimo. Ma la situazione è molto volubile. Nel momento in cui dovesse calare la tensione, la situazione economica dovesse migliorare, allora vedremo riaffiorare una serie di valori positivi. Altrimenti, si potrebbe prospettare una situazione sociale ancora più grave di quella di adesso.
C’è fiducia che governo e istituzioni siano in grado di portarci fuori dalla pandemia?
Quello che si chiede quest’anno è che i processi vengano governati. Il 2020 è stato un anno in cui il problema principale era quello di parare il colpo. Vista l’emergenza, nella prima fase della pandemia c’è stato un grande compattamento, tutti insieme nel segno dell’unità nazionale. La fiducia nelle istituzioni era larga. Poi questo sentimento si è sfilacciato nel corso del tempo, in particolare con l’autunno con l’arrivo della seconda ondata, quando la sensazione era di una rincorsa costante dietro ai problemi. L’incarico a Draghi ha restituito molta fiducia ed è stato visto positivamente, ma quando sono arrivate le nomine del suo governo la situazione ha subito di nuovo un arretramento. In ogni caso la sensazione è che questo sia l’anno della grande occasione, della possibilità di rinnovare non solo l’economia, ma l’intera società italiana.
Parlando del 2020, la pandemia ha portato grandi trasformazioni nella nostra società e nel nostro vivere quotidiano. Quali sono quelle che, dalle vostre rilevazioni, rimarranno anche dopo la crisi?
Una tendenza riguarda la casa. In questo contesto sempre più centrale. La casa è un po’ il guscio in cui ci sentiamo al sicuro e in cui è sempre più importante che io possa avere lo spazio per fare tutto ciò che mi serve. E quindi molti italiani hanno rivisto un po’ gli spazi, chi pensando a un trasferimento, magari dove c’è del verde attorno, chi riorganizzando la propria casa in modo che sia anche luogo di lavoro.
Il lavoro da casa è diventata dunque la nuova soluzione?
Non esattamente. A inizio pandemia si pensava fosse la panacea contro la crisi. Poi ci si è resi conto che il contatto con i colleghi è importante, che non tutti hanno a disposizione case adatte per lo smartworkig, o per lo meno non per l’intera settimana. E così l’entusiasmo è diminuito. Credo assisteremo a una riorganizzazione, ma si andrà verso un sistema misto con tre-quattro giorni in ufficio e uno o due a casa. E riguardo al lavoro un’altra tendenza è legata alla mobilità: l’aggiornamento tecnologico vissuto in questi mesi, l’uso così ampio di conferenze, riunioni, meeting online porta a immaginare una grande riduzione degli spostamenti. D’altro lato è cresciuta anche molto la sfiducia nei mezzi pubblici, con la propensione all’uso della propria macchina privata, che sarà diversa, più sostenibile ed ecologica. Ma che comunque farà aumentare il traffico basato sugli autoveicoli privati che sarà ancor di più un problema per la gestione della città. E quindi ci vorranno delle politiche molto più effi caci rispetto al passato.
Gli incentivi sulle biciclette non hanno funzionato?
C’è stato un aumento su questo fronte, così come sulla mobilità a piedi. Le persone si sono mosse molto di più con le proprie gambe, anche a causa delle tante restrizioni. Dipenderà tantissimo dalla politica nell’avere la capacità di sostenere e rinforzare questi comportamenti positivi.
La politica dovrà anche dare risposte sulla scuola: cosa emerge da un anno di indagini a riguardo?
Una delle cose che più colpisce è che in tutto questo tempo spesso erano gli stessi genitori dei ragazzi, soprattutto delle superiori, a dire ‘non facciamoli andare a scuola’. C’è tutta la questione della scuola come luogo di contagio, e va bene. Ma che per la difficoltà di gestire i trasporti si lascino i ragazzi a casa e questo vada bene a tutti, lo trovo piuttosto inquietante. Di sicuro, in generale, è un Paese che continua a pensare poco ai giovani e continua ad avere poco una prospettiva di investimento sul futuro e sulle competenze. Questo è emerso abbastanza con evidenza perché la scuola non è stata al centro degli interessi generali, rispetto ad altre tematiche. Si è discusso molto più di banchi che di tutte le altre strutture necessarie. E dall’altra parte, anche parlando di dad, mi sembra che per alcuni aspetti sia stata veicolata più la polemica fi ne a se stessa che l’esperienza positiva o altre soluzioni. Ma questo fa un po’ parte dei limiti della nostra cultura. Si fa molta fatica a ragionare sul domani e in tutto questo i giovani sono indubbiamente penalizzati.
Altro tema che preoccupa per il domani è l’hate speech, soprattutto alla luce di questa rabbia latente. Quanto siamo a rischio?
Non si possono fare previsioni, perché come dicevo la situazione è molto instabile. L’impressione è però che a volte il cosiddetto hate speech abbia forse più visibilità, grazie ai social e non solo, di quella che è poi la realtà dei fatti. Faccio un esempio: a inizio pandemia c’era un discorso di attacco alla comunità cinese, che era oggettivamente insensato, poi questa cosa si è spenta. Siamo in un momento veramente in grande evoluzione. E ancora, sempre parlando di Cina, ad un certo punto gli italiani la consideravano il paese più amico dell’Italia. Poi anche questo dato si è drasticamente ridotto ed era legato – così come tante altre cose – a come i media stavano raccontando ciò che accade.
Se guardiamo ora al futuro del nostro paese cosa dobbiamo aspettarci?
Credo che il tema oggettivamente sia uscire dalla logica del tifo nel nostro Paese, cioè non essere ottimisti o pessimisti. Dobbiamo essere realisti e in grado di leggere quello che succede con competenza, con i dati alla mano. E quando si ha una lettura competente, prendere decisioni informate. Perché se dobbiamo difendere l’Italia o dobbiamo attaccarla, non usciamo dai problemi. Sono solo visioni che mistificano la realtà e non ci fanno guardare al domani.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Marzo 2021