Periscopio – Polonia
Abbiamo già denunciato, in passato, la promulgazione, in Polonia, di quella che ci pare una legge davvero assurda, offensiva della verità della storia, della libertà di ricerca e di opinione, dei più elementari livelli di intelligenza e razionalità. Ma offensiva, soprattutto – ed è la cosa che più importa – della memoria dei morti. Mi riferisco alla pazzesca norma secondo la quale può essere denunciato e condannato chiunque osi dire che ci sia stata una qualsiasi responsabilità del popolo polacco – in qualsiasi sua componente, anche minima – nella realizzazione della Shoah.
Sulla base di questa legge, potrebbero o avrebbero potuto essere processate condannate persone come Jean Amery, Bruno Bettelheim, Nedo Fiano, Primo Levi, Liliana Segre, Piero Terracina, Elie Wiesel e centinaia di altri testimoni sopravvissuti, che hanno raccontato ciò che hanno vissuto. Nessuno di loro si è mai sognato di dire che la Shoah è stato un progetto ideato e realizzato dalle autorità polacche (che, com’è noto, già alla fine del settembre del 1939 non esistevano più). Ma tutti loro hanno dovuto raccontare la verità: ossia che i soldati tedeschi, ad Auschwitz come a Treblinka, a Bergen Belsen come a Mauthausen e in tutte le altre mostruose fabbriche della morte, non si vedevano, in quanto non si sporcavano le mani con la bassa manovalanza. Quelli che scortavano alle selezioni, che mandavano al gas, che bastonavano i detenuti, che entravano nelle baracche all’alba, per ordinare di andare al lavoro, non erano tedeschi, ma altri detenuti da loro scelti – in genere, in base a un sommario esame attitudinale – e incaricati di queste mansioni: russi, bielorussi, lituani, ucraini, lettoni, moldavi, transilvani, estoni. E, soprattutto, polacchi. Tanti, tantissimi polacchi. E di che nazionalità erano i contadini, gli artigiani, i commercianti che vedevano quelle oscure colonne di fumo alzarsi in cielo, a poche centinaia di metri di casa loro? che sentivano quello strano, acre odore di carne bruciata, senza fare mai nessuna domanda al riguardo? erano forse americani, australiani, eschimesi?
Ho diversi cari amici in Polonia, e amo molto quel Paese, dove sono stato due volte, e dove spero di potere presto tornare; così come amo moltissimo la Germania, dove sono stato invece innumerevoli volte, per lavoro e per piacere, e dove vivono diversi miei amici del cuore, con i quali sono in costante contatto da decenni (con uno, in particolare, da esattamente 45 anni). E, per entrambi questi Paesi, penso esattamente la stessa cosa che penso dell’Italia, ossia che i suoi peggiori nemici sono coloro che negano le sue terribili responsabilità storiche a partire dal 1922 (ma già, in buona parte, dal 1911), e soprattutto dallo sciagurato ottobre del 1938 e dal vile giugno 1940. Sono quelli gli antitaliani, sono loro che dovrebbero essere denunciati e puniti.
È con grande sconforto e angoscia, perciò, che apprendo la notizia – completamente ignorata, mi pare, dai mezzi di informazione italiani ed europei – dei primi processi avviati, in Polonia, contro degli storici che hanno avuto l’ardire di fare ricerca sull’Olocausto senza mettersi perfettamente in linea con la verità storica ufficiale irrefutabilmente sancita dalla legge polacca, che vuole l’intero popolo di Polonia candido come una colomba, scevro della benché minima connivenza, più innocente di un bambino appena nato.
I Professori Barbara Engelking e Jan Grapowski hanno pubblicato, nel 2018, uno studio sugli eccidi di ebrei perpetrati in una provincia polacca sotto occupazione nazista, scrivendo che la popolazione locale avrebbe in parte collaborato alle attività delle autorità occupanti. In tali affermazioni la nipote di un signore che, all’epoca, risiedeva in quella zona, ha ravvisato, alla luce della nuova normativa, una diffamazione della memoria del suo zio, e ha citato in giudizio i due studiosi, che sono stati chiamati a comparire innanzi a un tribunale di Varsavia, per pronunciare pubbliche scuse e una pubblica ritrattazione, ed evitare così, forse, il pagamento di un’ammenda di circa 22.500 euro.
Gli studiosi, sia chiaro, non avevano accusato senza prova una specifica persona di avere compiuto crimini di guerra (nel qual caso, gli eredi si sarebbero potuti legittimamente sentire titolati a difenderne la memoria), ma si erano limitati a richiamare una generale connivenza della popolazione locale: un mero dato di fatto, che solo la più cieca, ottusa e maligna malafede può negare, così come sarebbe assurdo negare (pur senza fare di ogni ebra un fascio, ovviamente) le responsabilità collettive dei tedeschi, degli italiani, dei francesi, degli ucraini e via dicendo. Il popolo polacco, scrissi nella mia nota, ha deciso di andare in Paradiso per forza di legge. E, in forza della stessa legge, vuole mandare all’inferno, o in prigione, chi osi dubitare di questa sua luminosa santità.
Mi chiedo se non sia opportuno, a questo punto, promuovere una generale diserzione dei viaggi della Memoria ad Auschwitz. Non è possibile mandare là ogni anno centinaia di migliaia di ragazzi affinché sentano, da guide locali obbligate a farlo, che le vittime sono morte in un Paese di santi, che è stato, nella sua assoluta totalità, soltanto una vittima, esattamente come loro. È un’offesa alla Memoria che non si può tollerare. Quei morti non sono proprietà della Polonia, del Paese dei santi e, prima ancora che ricordati, devono essere rispettati.
Francesco Lucrezi
(10 marzo 2021)