Una nuova Haggadà per Pesach

Chag hamatzot (festa delle azzime), zeman cherutenu (festa della libertà), chag aviv (festa della primavera). Sono i nomi con cui è conosciuta la festa di Pesach. Qual è la differenza fra questi significati? Una risposta la si trova nella nuova edizione dell’Haggadah di Pesach dell’editore Belforte, caratterizzata da uno stimolante dialogo sui molti temi che questa ricorrenza pone all’ebraismo da millenni. Ad animarlo è Dario Coen, che veste i panni dell’intervistatore e rivolge alcune precise domande al rav Roberto Della Rocca e allo psicoanalista Alberto Sonnino. Impreziosiscono il volume, la cui introduzione è firmata dal rav Riccardo Di Segni, le colorate illustrazioni di Micol Nacamulli.
“Nella Torah – spiega il rav Della Rocca – il nome Pesach è legato prevalentemente al qorbàn, sacrificio (Shemòt, 12; 11), ed è invece chag ha matzòt, festa delle azzime (Shemòt, 23; 15), la denominazione che meglio definisce la festa in quanto il suo simbolo è l’azzima. Le matzot sono anche il paradigma della libertà, simboleggiata dalla genuinità e dalla ‘solerzia’ con cui deve essere impastato questo pane”.
Un’altra domanda riguarda la figura del “saggio”, uno dei protagonisti delle due serate del Seder. Se già conosce tutto, perché ha bisogno di fare domande? Da dove gli deriva questa necessità? “Chiedere – ricorda Sonnino – vuol dire cercare, interrogare, orientandosi a nuove scoperte, per acquisire maggiori conoscenze sentendosi non paghi delle proprie certezze e bisognosi di apprendimento”. Essere disposti a mettere tutto in discussione, senza fermarsi a verità assolute che chiudono la ricerca, è quindi una strada preferenziale per far sì “che il sapere progredisca, senza confini stabiliti”.
Tra i temi più intriganti che si vanno a toccare c’è il rapporto con l’Egitto. Il tentativo di comprendere l’impatto e la lezione di quell’esperienza, assurta a paradigma universale di liberazione come ricorda, tra gli altri, Michael Walzer nel suo celeberrimo Esodo e rivoluzione.
Suggestivo il paragone proposto da Sonnino: “Quando da piccoli si è totalmente dipendenti dalle cure materne, sembra non esserci libertà dal vincolo con chi accudisce. Ma, sebbene in quel periodo non ci si possa considerare né autonomi né liberi, è pur vero che proprio a partire da tale condizione sarà possibile costruire progressivamente un’identità adulta, fondata sulla capacità di gestire la propria vita in libertà. Analogamente, con le dovute differenze, possiamo immaginare che anche per i figli di Israele sia stato necessario un periodo di incubazione nella schiavitù prima di poter essere simbolicamente partoriti, con l’apertura delle acque del Mar Rosso, come popolo libero”.
Un confine marcato nel segno della consapevolezza e del movimento verso una meta. Dice al riguardo il rav Della Rocca: “Se dopo aver vissuto un’esperienza importante torniamo sui nostri stessi passi, e questo viaggio non ha determinato alcun cambiamento in noi, è segno che siamo rimasti immobili nonostante l’apparente movimento”.

(La presentazione della nuova Haggadah di Belforte è in programma per domani alle 12 sul canale social UCEI. In compagnia degli autori e dell’editore Guido Guastalla ci saranno David Meghnagi e Tobia Ravà)

(14 marzo 2021)