Essere giovani ai tempi del Covid

Sono loro le vittime principali di questo nostro tempo maledetto, fatto di contagio, di malattia, di sofferenza, di incertezza interminabile, di attese e di speranze frustrate. Sono i giovani i più impreparati, i più sguarniti, i più indifesi di fronte allo svuotarsi progressivo di una vita in cui si indeboliscono i contatti, i legami di vivacità comune, la pura bellezza dello stare insieme. Eccoli, fin dall’inizio allontanati dalle scuole, dalle loro classi, dalla vicinanza dello scherzo con gli amici, dal dialogo intenso e appassionato con il vicino di banco, dal sogno di un’amore coinvolgente. Eccoli proiettati davanti allo schermo del computer, bravi e dediti nella loro attenzione intelligente eppure smarriti di fronte a questa nuova meccanica didattica a distanza, fredda e impersonale e ciononostante spesso l’unica oggi davvero possibile. Eccoli chiusi irrimediabilmente in casa, privi da tempo delle spensierate serate con i coetanei, delle interminabili chiacchierate fuori dal pub con la bottiglia in mano. Come e quando mai potranno recuperare gli anni migliori della loro vita? Chi potrà mai rendere loro questo tempo irrimediabilmente perduto, il più bello e importante dell’intera esistenza? Ne deriveranno certo negli anni traumi e ferite difficilmente rimarginabili, che li porteranno a essere più tristi, più introiettati, più chiusi, forse più freddi.
Uno come il sottoscritto che per tutta la vita ha fatto l’insegnante, il mestiere più bello del mondo, non può essere insensibile al dramma, alla sofferenza di un’intera generazione. Al di là dei tanti troppi morti che continuano a funestare le nostre cronache, è la perdita dei giovani, l’indebolimento irrevocabile di questo fondamentale settore sociale il danno maggiore arrecato dalla pandemia. Perché i giovani rappresentano il nostro presente e la nostra unica speranza di futuro. Se ci giochiamo questo settore decisivo, l’esistenza stessa del mondo perde senso, non ci sarà possibilità di ripresa.
Ecco perché, di fronte a quello che non è solo un rischio ma ormai una triste inevitabile realtà, la società ha dei doveri precisi e ineludibili. Doveri di responsabilità di fronte ai suoi giovani, cioè al suo stesso futuro. Quello di rendere finalmente le scuole sicure e accessibili, con dei provvedimenti di distanziamento, di riduzione del numero di studenti per classe, di ingresso programmato e frammentato, di intensificazione del sistema dei trasporti che avrebbero dovuto essere assunti già da molto tempo, dall’inizio di tutto questo inferno – nei primi mesi imprevedibile ma poi sempre più chiaro nella sua proiezione verso una durata indefinita. Quello di tentare di restituire alle giovani generazioni ciò che è stato loro sottratto in termini di contenuti e di tempi di studio, di approfondimento, di dialogo, di contatto umano. Quello di rendersi finalmente conto che la riorganizzazione del sistema scolastico e un suo accettabile funzionamento sono a questo punto l’arco di volta dell’intero sistema-paese, persino al di là delle strutture economiche di base e delle emergenze sociali. Quello di ridare globale serietà e profondità a percorsi programmatici che forzatamente si sono fatti in questi mesi più diluiti e fragili. Quello di offrire ai ragazzi, appena la situazione le renderà attuabili, rinnovate possibilità di incontro, di socializzazione: abbiamo tutti il compito di tentare almeno di risarcire i giovani di quanto continua a essere loro ingiustamente tolto.
E anche l’ambiente ebraico italiano, dall’UCEI alle singole Comunità, penso abbia degli impegni puntuali nei confronti dei giovani ebrei italiani, smarriti come tanti loro coetanei di fronte a un mondo in cui il tomento dell’isolamento continua a emarginarli e a derubarli della vita; con il rischio supplementare rappresentato da un antisemitismo crescente che minaccia l’intera società ebraica e ancor più i ragazzi.
Mentre mi avventuravo in queste amare considerazioni, ieri mattina ho avuto l’insperata fortuna di imbattermi in un meraviglioso ascolto radiofonico. Su Radiotre Classica la West Eastern Divan Orchestra diretta da Daniel Baremboim e il Coro del Duomo di Colonia eseguivano la Nona Sinfonia di Beethoven. Ecco, finalmente una luce di speranza. I giovani musicisti professionisti appartenenti a culture storicamente nemiche che programmaticamente compongono questo ensemble voluto da Baremboim e da Edward Said nel 1999 davano vita a una delle pagine più alte dell’intera letteratura musicale, creata da Beethoven quale sublimazione di un formidabile linguaggio sinfonico in un abbraccio corale collettivo capace di trascendere nel Finale ogni divisione settaria. I contrappunti “Feuertrunken” (ubriachi di fuoco) dell’Inno alla Gioia, l’intera Ode di Schiller sembrano aprire le porte a un’ultima speranza, nonostante tutto e nonostante la peste del Covid. Hanno dalla loro parte la forza della gioventù. Forse proprio per questo ce le faranno lo stesso.
David Sorani

(16 marzo 2021)