Machshevet Israel
Davanti al mare
Come leggiamo ogni anno, ciascuno di noi “ha il dovere di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto. E ciò be-kol dor va-dor, in ogni generazione. E se anche fossimo tutti intelligenti e sapienti, non per questo saremmo sollevati dal dovere intergenerazionale di narrare e commentare e tramandare il ricordo degli eventi dell’esodo dall’Egitto. Questa narrazione, celebrata in famiglia, contrassegna l’inizio degli otto giorni della festività di Pesach (sbrigativamente detta ‘pasqua ebraica’), un tempo chag ha-regel, festa di pellegrinaggio a Gerusalemme. L’evento è evocato ogni settimana perché anche shabbat è uno zekher li-ytziat mitzraim, un ricordo dell’uscita dall’Egitto. Exodus è termine greco: la strada-per-fuori, uscita appunto. Non fu una fuga e neppure una migrazione. Fuggono i ladri, non gli aspiranti alla libertà; e chi fugge non osserva un meticoloso set di azioni, come osservarono gli ebrei schiavi di faraone (azioni che simbolicamente ripetiamo, straordinarie allora, normali e normative oggi, per recuperare il senso di quel che il racconto dice che avvenne). Migrano poi coloro che cambiano patria, con la nostagia nel cuore di ciò che si lasciano alle spalle, spesso sognando di tornare indietro. Per gli ebrei fu un’uscita: come quella di Abramo da Ur di Caldea o quella di Giacobbe dalla casa dell’arameo Labano o quella di Mosè dalla terra di Madian. Per alcuni fu una promessa compiuta, per altri una sorpresa, e forse non tutti uscirono; ma chi uscì costruì una storia che dura ancor oggi. Il miracolo non è tanto l’esodo quanto che quella storia continui, quasi posta sulle spalle di coloro che ogni anno fanno il seder di Pesach.
Ma tra l’Egitto, inteso come “casa degli schiavi”, e la libertà, intesa come condizione per ricevere la Torà, c’è di mezzo il mare. Cosa fecero gli ebrei quando si trovarono davanti al mare, tra l’esercito egiziano alle spalle e le acque di un elemento minaccioso in cui potevano perire? Per la risposta cedo la parola all’amico e maestro Roberto Della Rocca che, insieme allo psicanalista Alberto Sonnino e a Dario Coen, ha commentato in forma dialogata l’intera “Haggadah di Pesach” in una nuovissima edizione, or ora edita dalla (ebraicamente benemerita) casa editrice Belforte di Livorno, con illustrazioni di Micol Nacamulli (pp.244, euro 35). In ebraico, anche traslitterato, e in italiano, il volume può essere usato sia come testo per il tradizionale seder, sia come pre-testo per lo studio e l’approfondimento di ogni sua singola parte. Tornando alla domanda: cosa fecero gli ebrei davanti al mare dei giunchi? Scrive rav Della Rocca: “Un midrash dice che, al momento di attraversare il mare, il popolo si divise in quattro gruppi” (a Pesach quattro è numero ricorrente e il midrash qui riportato si trova nel più antico commento all’Esodo a noi noto, la Mekhiltà). “Il primo gruppo disse: siamo spacciati, dobbiamo arrenderci e tornare in Egitto; il secondo propose: gettiamoci in mare e suicidiamoci, perché è meglio morire liberi che vivere come schiavi; il terzo incitò: prendiamo in mano il nostro destino e combattiamo gli egiziani; il quarto infine disse: biosgna pregare”. Non è difficile identificare queste quattro posizioni con altrettante realtà e situazioni della storia ebraica.
“Ma l’Eterno – continua rav Della Rocca – mostrò di non essere d’accordo con nessuna di queste quattro posizioni e ordinò a Mosè: ‘Parla ai figli di Israele e che essi avanzino’ (Shemot/Es 14,15). Spesso ci troviamo di fronte a situazioni in cui ci sembra manchi una via d’uscita. Le soluzioni sono sempre simili a queste, sebbene alcune risultino più idonee di altre. Senza dubbio è meglio pregare che suicidarsi, ed è meglio combattare che arrendersi. Eppure l’emunà, la fede nell’Alto, fa intravvedere una quinta dimensione, che supera la nostra natura e che talvolta va perseguita. Il Talmud sostiene che nulla può muoversi dall’Alto se prima non si muove qualcosa dal basso. Nessun miracolo può avvenire se non c’è prima un’iniziativa da parte dell’uomo. Il mare si aprì perché Nachshon ben Aminadav, della tribù di Giuda, si gettò nell’acqua prendendo alla lettera il comando dell’Eterno. Ciò significa che ci sono situazioni, anche se rischiose, nelle quali bisogna tuffarsi. Non esiste libertà se non si rischia in proprio”.
Commenta a sua volta lo psicanalista Alberto Sonnino: “Il gesto di gettarsi in mare può apparire contrario al buon senso e alla logica… ma in questo episodio troviamo un esempio di quanto una forte motivazione alla base dei propri progetti possa favorire una loro realizzazione, anche se le circostanze dovessero risultare contrarie. Avere fiducia nella reale e profonda volontà di raggiungere un obiettivo è meno scontato di quanto le apparenze spesso possano suggerire” (citazioni dall’Haggadah di Pesach di Belforte, 2021, pp.103-104). Ecco un caso ebraico del “volli, sempre volli, fortissimamente volli” del nostro (in-?) dimenticato Vittorio Alfieri, cantore romantico della libertà contro ogni forma di tirannide, politica o spirituale, laica o religiosa che sia.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(18 marzo 2021)