“Sentenza della Corte,
un fallimento per tutti”
“Con il rinnovamento della vita ebraica in Terra Santa vi era la speranza di un rinnovamento del potere creativo di entrambe: halakhah e aggadah… Eppure oggi molte guide spirituali, la cui cultura e il cui zelo pur evocano rispetto, non si rendono conto che alcune delle loro decisioni contengono un elemento di eresia pan-halakhica” (“Rassegna Mensile di Israel”, 39/2, febbraio 1973, p. 91).
Con queste parole, a suo tempo definite profetiche, Abraham Joshua Heschel si rivolgeva al 22° Congresso Sionistico Mondiale a Yerushalaim nel gennaio 1972, pochi mesi prima della sua morte. Peccato che l’autore, uno dei più grandi esperti di Midrash dell’ultimo secolo, non fosse osservante: Heschel insegnava etica e mistica ebraica in prestigiosi istituti del mondo riformato (Hebrew Union College) e conservative (Jewish Theological Seminary) americano e, di fatto, lo rappresentava.
Voglio confrontare questo testo con la recente sentenza della Corte Suprema israeliana che riconosce agli effetti civili le conversioni effettuate dai rabbini reform in Israele. Non è questo che un ulteriore passo verso il pieno riconoscimento di un rabbinato alternativo nella società israeliana. Attribuire il problema a un vero o presunto strapotere della Corte Suprema e quindi a un difetto nell’ordinamento statale è riduttivo e forse anche pericoloso. Qualcuno ha addirittura chiesto come contropartita di introdurre il principio che i giudici siano eletti dal popolo. A parte il fatto che non è detto di poter contare sempre su una maggioranza a noi favorevole, che il potere giudiziario resti indipendente dalla volontà popolare è una tutela della democrazia anziché no. Per non finire come con certi uomini politici italiani che sognano di poter tutelare i propri capricci invocando un controllo sui giudici!
Il fenomeno di cui parliamo è ormai evidente non solo nei tribunali, ma anche in altri ambienti non meno influenti come l’accademia. Agli studenti delle facoltà scientifiche in Israele il curriculum richiede di frequentare anche alcuni corsi di cultura umanistica, detti avnè pinnah (lett. “pietre angolari”). Ciò è di per sé un bene, nella misura in cui questi insegnamenti si prefiggono di formare non solo degli scienziati, ma prima di tutto dei cittadini. Il problema è che l’impostazione di questi corsi, per lo più di cultura ebraica, è spesso molto lontana dalla visione del mondo dell’ebraismo tradizionale. La simpatia di molti professori per la riforma è palpabile, come se l’Università volesse di proposito legittimare una coscienza umanistica nazionale che sostituisca quella della yeshivah.
Parliamo dunque di un problema non solo istituzionale, ma culturale e identitario: la società israeliana, sotto questo profilo, mostra di essere in crisi non meno della stessa Diaspora. Le ragioni sono a mio avviso almeno tre. Anzitutto la perdita di credibilità del rabbinato ufficiale, che non ottiene più lo stesso rispetto nel vasto pubblico. Per carità, questo problema è in realtà sempre esistito, ma non nelle proporzioni odierne. Fatto culturale? Semplice incapacità di comunicazione, o c’è dell’altro? Le parole di Heschel richiedono qualche riflessione da parte nostra. La seconda ragione è legata al progressivo interessamento dell’ebraismo riformato al sionismo, che un tempo era poco o nullo. Oggi i magnati americani della riforma investono in Israele soprattutto forze economiche e pretendono un riconoscimento. Ma l’aspetto più grave è a mio avviso il terzo. Un tempo la riforma era costituita da ebrei che volevano sembrare non ebrei, oggi è l’inverso: si tratta di non ebrei che vogliono apparire come ebrei. Quand’ero bambino il matrimonio misto era per lo più visto come un’irregolarità anche da molti non osservanti. Oggi il fenomeno è talmente dilagante che tutti vogliono naturalizzare coniugi e figli nel senso etimologico del termine: chiedono cioè che essi siano accettati come automaticamente ebrei per natura, come se niente fosse.
Ciò non è possibile. Il rabbinato riformato, che per lo più indulge a questo fenomeno, finge di non riconoscere che il matrimonio misto non è solo severamente proibito dalla halakhah, ma anche dalla tanto rimpianta aggadah. Sfido io gli eredi e successori di Heschel a trovare una qualsivoglia fonte midrashica non dico a giustificazione, ma semplicemente a comprensione di questo fenomeno. La cultura ebraica è una cultura rigorosamente endogamica e questo fattore pesa sulle scelte di molti correligionari, ormai anche in Israele. Liberi di scegliere, naturalmente, ma senza pretendere di voler garantire la continuità ebraica a ogni costo.
La sentenza della Corte costituisce a mio avviso un fallimento di tutti. Nella società israeliana la volontà di abbattere una “discriminazione” ne creerà di fatto un’altra: quella, odiosa, fra ebrei di serie A e ebrei di serie B. Fuori da Israele sarà senz’altro oggetto di imitazione in molte Comunità della Diaspora, spingendo alla legittimazione di un rabbinato alternativo anche dove questo non era finora riconosciuto. Ciò accelererebbe la loro fine, soprattutto di quelle realtà piccole per le quali ci si illude di ritenere più adatta proprio questo tipo di soluzione.
Come affrontare il problema? Per il matrimonio misto esiste l’opzione del Ghiyur ka-Halakhah, compiuto al cospetto di un tribunale rabbinico osservante e riconosciuto da tutti. Ma soprattutto occorre intensificare l’educazione ebraica dei giovani nei valori tradizionali, rappresentati sia dalla halakhah che dalla aggadah. Occorre saper trasmettere loro quei valori che li invoglino a distinguere, come si diceva una volta in Italia, fra il “din” (ebraismo autentico) e il… “comodin”.
Rav Alberto Moshe Somekh
(18 marzo 2021)