L’offensiva della bellezza
Mentre al cinema Gal Gadot spopola nel ruolo di Wonder Woman, un’altra israeliana conquista i riflettori internazionali. Si chiama Yael Shelbia, ha 19 anni ed è il nuovo volto della diplomazia della moda – per l’esattezza il volto più bello del mondo. Da poco incoronata vincitrice dell’annuale concorso di TC Candler “100 Most Beautiful Faces of the Year” dove nel 2018 si era piazzata terza subito prima di Gal Gadot, Yael è la prima modella d’Israele ad apparire sulla copertina di L’Officiel Arabia, storica rivista di moda.
Eccola, in un primo piano folgorante, mentre fissa l’obiettivo con gli ormai celebri occhi blu. Sulle labbra, il filo di un mezzo sorriso. Quello di chi ha sta facendo la storia, come conferma il titolo che in sovrimpressione proclama a tutte maiuscole: A Peace of History.
La decisione di presentare una modella israeliana, spiega un lungo editoriale intitolato Shalom!, s’inserisce nella scia dei recenti accordi di Abramo fra Israele, gli Emirati Arabi e il Bahrein. È un omaggio all’accordo di pace, “un momento storico che ha segnato un nuovo capitolo di tutti i paesi coinvolti”. Nulla di casuale, dunque. Siamo nel pieno di una delle più ambiziose offensive della moda – il soft power per eccellenza, capace più di tanti discorsi di smontare pregiudizi e veleni accarezzando l’occhio e l’immaginario, senza dimenticare il portafoglio. “Se questa pandemia ci ha insegnato qualcosa sulla moda è che riguarda sempre qualcosa più dei vestiti o dei prodotti”, scrive L’Officiel. “La moda riflette ciò che accade nelle nostre vite e come ciò cambi le nostre abitudine. Perciò è anche strettamente intrecciata con la politica: esprime e comunica credenze e convinzioni, distingue le persone ma le può anche unire intorno a idee comuni”.
Se la premessa suona scontata, l’intera operazione non lo è. Poiché anche nella moda gli accordi migliori sono multilaterali, mentre la bellissima Yael debutta nei paesi del Golfo insieme a una pattuglia di stilisti e artisti israeliani, in Israele lo storico settimanale Laisha esce con la stessa copertina. La back cover è invece riservata alla top model di origini kenyote Chanel Ayan, celebre negli Emirati dov’è stata il volto di Dior e la prima modella nera a sfilare per firme come Valentino e Chanel. Se Chanel posa a Dubai, Yael Shelbia è ritratta dal fotografo israeliano Yossi Michael nelle stanze eleganti del Peninsula Hotel di New York, città dove hanno sede le Nazioni Unite. Insieme a Michael, che vive a New York e in passato ha lavorato con le edizioni internazionali di Vogue, Elle e clienti come H&M, debutta su L’Officiel anche il nuovissimo brand israeliano Micu di Michal Stern e Inbar Ben Shabbat. Micu, di cui Yael indossa in copertina una classica blusa in seta bianca e blu, ha esordito nel 2020 con una collezione autunno-inverno. I capi, realizzati nell’atelier di Gerusalemme, si ispirano al Rinascimento, alla sua arte e architettura, con una linea minimalista e femminile che ben si presta alle esigenze di una moda al tempo stesso sofisticata e modesta – qualità molto richieste dalle clienti musulmane. Su L’Officiel trova posto infine una speciale collaborazione fra l’israelianaTalia Zoref, illustratrice di moda che ha lavorato con Fendi e Chanel, e con la calligrafa e muralista di Dubai Diaa Allam che insieme al laboratorio creativo Foxylab di New York in queste pagine danno vita ad abiti che sono quadri viventi.
Ci sono voluti mesi di negoziazioni, per arrivare a questo risultato. Due riviste, due modelle. Due mondi. Avviare uno scambio fra gruppi creativi che finora non potevano collaborare, è stata un’impresa. Il risultato è però sotto gli occhi di tutti e l’artefice Anna La Germaine,
fondatrice dell’agenzia Fashion in Politique, ne va fiera. “Moda e politica sono inseparabili e la riuscita combinazione delle due crea il terreno per un business fiorente ed economie in crescita nei paesi”, dice. “Con Yael Shelbia sulla copertina di L’Officiel Arabia puntiamo a celebrare nuove opportunità di lavoro fra gli Emirati, il Bahrein e Israele”. Se tutto fila liscio, le prospettive sono magnifiche ma è difficile prevedere se l’offensiva della bellezza riuscirà ad abbattere le storiche barriere di sfiducia fra i due paesi o se l’operazione si risolverà in una bolla di sapone. I primi segnali sono però incoraggianti. Elad Bornestein, titolare di una compagnia che rappresenta stilisti israeliani e internazionali, ha già annunciato di essere stato invitato a rappresentare Israele al World Fashion Festival Awards di Dubai il prossimo autunno. Per altri riscontri, bisognerà aspettare. Più complesso sarà misurare l’impatto in termini culturali di quello che si auspica sia il primo di tanti scambi. Il messaggio di pace, amicizia e cooperazione fra i popoli lanciato dalla moda è forte, come lo è la decisione di valicare i confini rivolgendosi alle donne e a chi ama il bello. Se il metodo sembra troppo frivolo per riuscire, non resta che riandare al passato. Quando la diplomazia gentile della bellezza ha veicolato con straordinaria efficacia un’immagine positiva di Israele e della sua gente. Ricordate la biondissima Bar Refaeli immortalata in costume da bagno fra i grattacieli di New York? E le attrici Natalie Portman e Shira Haas? E avete presente Gal Gadot/Wonder Woman che al cinema sta salvando il mondo? Yael Shelbia è una di loro ed è qui per restare.
Daniela Gross, Pagine Ebraiche Marzo 2021
La regina Ester alla Casa Bianca
Vero. Il mito della bellezza è una trappola che rischia di risucchiare le donne, come tanti anni fa ci ha insegnato Naomi Wolf. Vero però che quando si unisce al cervello, la bellezza è un’arma di libertà formidabile. Per rendersene conto basta andare a ritroso nel tempo e incontrare la regina Ester così bella e brillante da conquistare il cuore il re, così determinata e coraggiosa da salvare il suo popolo. Una figura così potente da diventare un simbolo capace di attraversare i secoli e i continenti fino a radicarsi nel profondo dell’immaginario collettivo. Con il titolo Esther in America (Maggid/ Yeshiva University, 424 pp.), una serie di saggi a cura di rav Stuart Halpern, responsabile dei programmi accademici alla Yeshiva University di New York, ne ripercorre ora l’interpretazione e l’impatto negli Stati Uniti. “Nel corso della loro storia – scrive Halpern – gli americani sono rivolti alla Meghillà di Ester mentre facevano i conti con le loro libertà, la morale, le passioni e la politica. Questi riferimenti continui non so
no casuali ma riflettono l’apprezzamento di una storia i cui temi – la libertà, il potere, le dinamiche fra i sessi, l’appartenza etnica, il concetto di popolo fino a oggi definiscono l’identità americana”.
Ester è una delle figure a cui fanno riferimento gli abolizionisti e negli anni che precedono la Guerra civile diventa uno dei simboli della lotta contro lo schiavismo. Nel 1853 Sojourner Truth, nata schiava, si richiama a lei mentre si rivolge alla Women’s Rights Convention di New York. “La regina Ester si è fatta avanti perché era oppressa e sentiva che veniva fatto un grande torto e ha detto ‘morirò o porterò la mia protesta davanti al re’”.
A Ester si rifanno manuali puritani, concorsi di bellezza e infinite messe in scena. È l’eroina dei conversos latino americani, piace alle femministe e il suo esempio riecheggia perfino nella vicenda fondativa di Abramo Lincoln. Hillary Clinton la apprezza fin da bambina (“Non c’erano molti modelli di donne che avevano l’opportunità di prendere una decisione o assumersi un rischio così coraggioso”). Perfino Mike Pence si richiama alla sua storia quando a suo tempo sostiene l’impeachment nei confronti di Clinton. Quanto a Hollywood, chi meglio di lei si presta a diventare una star? “Esther ha ispirato ed ha influito sul progetto americano fin dal suo inizio”, scrive Halpern. “Rabbini ed esperti di etica, abolizionisti e artisti, predicatori e
presidenti, hanno compreso che parlava al loro tempo. Ha offerto conforto agli immigrati, forgiato solidarietà, influito sulla politica. Ester ha spinto le persone a capire che la salvezza non arriva da altro che dal proprio eroismo per gli altri”. E qui il richiamo al presente è inevitabile. In questo tempo di destre risorgenti e rimonta dei razzismi in tutto il mondo, quali sono i limiti del potere e quale il compito di ciascuno di noi? All’uscita del libro, per molti il rimando alle convulsioni che hanno accompagnato la fine della presidenza Trump è stato immediato.
dg