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Dall’antico Siddùr alla Nobel Glück,
l’identità che nutre l’anima
Storica docente dell’ateneo fiorentino, la professoressa Gigliola Sacerdoti Mariani ha sempre nutrito i suoi studenti con uno stile d’insegnamento colto e stimolante, votato alla multidisciplinarietà. Una formidabile capacità, la sua, di aprire finestre e mettere in relazione mondi.
Se ne trova un saggio in Donne e poeti vedono arrivare la verità (ed. Effigi), libro che raccoglie una selezione di suoi importanti contributi (in aula e fuori). Dalla proiezione della società anglosassone sulle vicende risorgimentali il cui punto di partenza è un’edizione del New York Times del 1882 che riportava tradotti i versi dedicati da Garibaldi a Caprera, per arrivare alla stretta attualità: e cioè al Nobel per la Letteratura conferito lo scorso anno alla poetessa Louise Glück, la cui narrazione ricorda all’autrice quel pilastro dell’ebraismo che è il midrash.
Non mancano, nel mezzo, le ricognizioni su testi antichi. Come il trecentesco Siddùr di Forlì, di proprietà della British Library di Londra, che getta uno sguardo commovente su quella lontana società ebraica e sul suo modo di rapportarsi alle principali festività. A partire da quella, imminente, di Pesach.
Per gentile concessione dell’autrice ve ne proponiamo un brano.
La liberazione dalla schiavitù in Egitto è uno dei temi ricorrenti nella liturgia e non solo in quella di Pesach. Basti pensare che perfino nel testo del kiddùsh, la benedizione del vino, la celebrazione con cui si santifica lo Shabbat e altre feste religiose, si accenna a quell’avvenimento. Perché la Pasqua segna un ‘passaggio’, un ‘Passover’ – come si dice correttamente in inglese – e l’evento è narrato nella Haggadà di Pesach: così si chiama quel lungo testo che viene letto/recitato/cantato in occasione della cena pasquale dove, in tipico stile midrashico, in un intreccio di citazioni di brani dell’Esodo, di quesiti, di risposte, interpretazioni, parabole, benedizioni e salmi, ‘si conduce’ la narrazione delle pene subite dagli ebrei sotto il Faraone, dell’uscita dall’Egitto, del loro ‘passaggio’ dall’esilio e dalla schiavitù fino alla libertà, al riscatto, alla redenzione, alla giustizia del Sinai.
Il testo inizia con le parole della benedizione rituale del vino e con un invito, che segna tutto il valore etico sotteso alla celebrazione e accompagna idealmente la lettura del testo medesimo: “Questo è il pane dell’afflizione che i nostri padri mangiarono in terra d’Egitto. Chi ha fame venga e mangi; chi ha bisogno venga e celebri la Pasqua”. Questa lettura comunitaria – che vuole avere anche intenti didascalici e mnemonici utili ai più giovani – enfatizza il momento dell’interazione tra il passato storico e il presente che proprio quel passato contribuisce a costruire e a definire, perché, come si indica in un paragrafo,
in ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se fosse uscito dall’Egitto, come è detto [Esodo 13:8]: ‘Tu in quel giorno, racconterai a tuo figlio e dirai a lui: noi facciamo queste cose per ciò che il Signore fece a me quando uscii dall’Egitto’ – Infatti Dio non ha liberato soltanto i nostri padri, ma con loro ha liberato anche noi.
Nel nostro manoscritto, detto intento didascalico è figurativamente sottolineato anche dall’immagine del rabbino che parla ai bambini e dei libri posti accanto a loro, su quello che sembra il piano di una cassapanca. Si tratta di una miniatura che adorna il bordo inferiore del folio 118r, collocata proprio a conclusione delle parole del rabbino Gamliel, il quale spiega il significato del primo dei tre simboli pasquali:
L’agnello pasquale che i nostri padri mangiavano quando esisteva il santuario, perché lo mangiavano? Perché Iddio passò oltre alle case dei nostri padri in Egitto, come è detto [Esodo 12: 27]: “Voi direte: ‘Questo è il sacrificio pasquale in onore del Signore, il quale passò oltre alle case dei figli d’Israele quando percosse gli egiziani e preservò le nostre case’”.
Tutta l’iconografia relativa a Pesach, nel testo di Forlì – come voleva e vuole la tradizione in ogni parte del mondo – è particolarmente ricca di dettagli e di colori, e nel folio 118v vengono introdotti il secondo e il terzo degli emblemi pasquali; la prima figura maschile mostra e porge l’azzima, a fianco del brano che recita:
Quest’azzima che noi mangiamo, perché la mangiamo? Perché la pasta dei nostri padri non ebbe tempo di lievitare, in quanto il Santo, benedetto egli sia, si manifestò loro e li liberò, come è detto [Esodo 12: 39]: ‘Fecero cuocere la pasta che avevano portato dall’Egitto, focacce azzime non lievitate, poiché erano stati cacciati via dall’Egitto e non avevano potuto indugiare, né rifornirsi di provviste’.
La seconda figura maschile, con abito parimenti elegante, ma di foggia e colore diversi rispetto alla prima, mostra e porge l’erba amara, a fianco del testo che ne spiega il significato emblematico:
Questa erba amara che noi mangiamo, perché la mangiamo? Perché gli Egiziani amareggiarono la vita dei nostri padri in Egitto, come è detto [Esodo 1:14]: ‘Amareggiarono la loro vita con duri lavori, di malta e mattoni […]: e imponevano loro questi lavori con asprezza’.
In questa pagina i colori hanno perso di intensità, perché si sono ‘scaricati’ sul folio precedente, dove le due figure, entro le loro cornici geometriche, vi ricompaiono quasi come ombre speculari.
Come dicevo sopra, la liturgia pasquale, nella sua complessa intertestualità, prevede anche letture tratte dal salterio e qui mi piace citare il Salmo 114, uno dei brani che, per le sue allitterazioni, assonanze, anafore, risulta fra i più poetici:
Quando Israele dall’Egitto uscì, la casa di Giacobbe di mezzo al po- polo straniero, / Giuda divenne suo consacrato, Israele suo regno. / Il mare vide e fuggì, il Giordano si volse indietro. / I monti saltellarono come arieti, le colline come agnelli. / Che hai, mare, che fuggi? E tu Giordano, perché ti volgi indietro? / E voi monti, perché saltellate come arieti? E voi colline come agnelli? / Trema, terra, innanzi al Signore, innanzi al Dio di Giacobbe, / che muta la rupe in ricettacolo d’acqua, il macigno in sorgente.
Nella trascrizione di quel testo, con una cornice rettangolare intorno a bezèt, l’autore vuole mettere in risalto il concetto fondamentale, quella della liberazione dalla schiavitù, racchiusa sinteticamente in un unico lessema, in due sillabe brevissime; grazie a un sistema di prefissi e suffissi la parola bezèt dice quello che in italiano verrebbe espresso con un giro di parole: “nel momento dell’uscita di”. Non occorrono illustrazioni in questa pagina dove i versetti della Scrittura risultano particolarmente efficaci: ancora una volta si trasmette lo stupore di fronte alla bellezza del creato e la meraviglia manifestata dalla natura stessa – personificata nei suoi mari, monti e fiumi – di fronte ai prodigi divini.
Gigliola Sacerdoti Mariani – Donne e poeti vedono arrivare la verità
(Nell’immagine una pagina dal Siddùr di Forlì del 1383)
(22 marzo 2021)