La differenza
tra democratico e inclusivo
Leggo che l’ebraismo è pluralista e, su questo punto, lascio ad altri la parola; però non leggo da nessuna parte che l’ebraismo è basato sul dibattito, non sull’unanimità di pareri, così come non leggo che per esercitare il cervello serve la dialettica. Con questo stigma, chi pubblicamente dice e sinceramente considera di essere pluralista, non sa di somigliare al personaggio della bellissima battuta di Gian Carlo Pajetta: “siamo così pluralisti che, una volta al potere, faremo fuori i non pluralisti”. Il compianto Pajetta non poteva immaginare che, ad oltre tre decenni dalla sua morte, qualcuno lo avrebbe preso sul serio, facendo salire la battuta sul piano alto delle verità incontrastate.
Quando leggo sul Corriere che Luciano Canfora, studioso e comunista, definisce il “politicamente corretto” come un flagello, mi convinco di essere nel giusto quando rimpiango il marxismo e i marxisti, perché loro richiamavano qualche ragionamento (che, come liberale, non condivido, ma che nondimeno ha arricchito il dibattito e, in certi casi, si è dimostrato utilissimo) anziché restare impigliati in una melassa sentimentale, dalla quale cultura e ragione sono messe al bando.
Mi preoccupa il ricorso all’inclusività, quando gli Stati Uniti sono riusciti a tenere a bada le guerre intestine che infestano ora l’Europa, creando e fomentando valori comuni. Le idee di fondo del multiculturalismo sono contraddittorie: a) tutti i valori sono uguali (senza voler vedere che fra tali valori possono esservi l’emarginazione della donna, l’omofobia e l’antisemitismo), b) i multiculturalisti, decidendo per altri quale sia il bene, si trovano nelle mani con uno strumento prezioso per emarginare chi non è d’accordo, bollandolo come ‘chiuso’.
Nell’ebraismo, poi, essere “inclusivo” comporta l’accoglimento di tutto e di tutti, annacquando la propria identità. Poiché non conta, nel barattolo, l’etichetta ma il contenuto, adornandosi di tutte le penne, si crea l’illusione di nascondersi meglio. Mi ricorda il cane di un’amica, il quale, nascondendo la testa dietro un ramo, credeva di non essere visto, come se il resto dell’animale non fosse stato visibile: è un’illusione. Sennonché, l’eterno bisogno di alcuni ebrei di essere accettati, postula questa apertura, dove i problemi dell’antisemitismo e quelli dei cambiamenti climatici si danno del tu e, siccome l’inquinamento colpisce tutti indiscriminatamente, ci si sente tutti uguali e si spera di essere ricambiati.
Ne consegue che dirsi “inclusivo” non equivale ad esserlo, ma comporta il suo contrario, segnatamente quando chi è inclusivo diffonde soltanto il proprio verbo e quello di chi gli è affine. Storicamente, poi, gli ebrei più aperti e che si convertivano ad un ritmo sempre più accelerato, erano gli ebrei tedeschi, con gli esiti noti. Chi è democratico, lascia che parlino tutti, chi è inclusivo integra tutte le identità nel proprio seno, rispondendo ad un bisogno che non è universale, ma che è soltanto proprio.
Emanuele Calò, giurista
(23 marzo 2021)