La lezione di Feuerstein
Sono passati sette anni dalla scomparsa di Reuven Feuerstein. La sua voce non si è però spenta in chi ha avuto modo di conoscere e apprezzarne l’impegno scientifico e culturale e l’apertura mentale. Nato nel 1921 da una famiglia di rabbini, il quinto di nove figli, Feuerstein crebbe in un ambiente che non disdegnava il socialismo e faceva sua le fede nel sionismo religioso. A tre anni aveva appreso a leggere e a scrivere. A otto gli era stato affidato un allievo di quindici a cui insegnare a leggere le preghiere in ebraico. Il padre del ragazzo era angosciato all’idea che il figlio non potesse un giorno recitare per lui il Kaddish. Alla vigilia dell’invasione nazista, Feuerstein era attivo a Bucarest come insegnante nei campi creati dal movimento sionista per la preparazione alla vita in Israele. In seguito svolse la sua attività in Transilvania con i bambini scampati allo sterminio. Internato e poi liberato, Feurestein raggiunse Israele. “In quel coacervo di esperienze quasi impossibili, di sforzi inauditi di sopravvivenza ma anche di immense speranze ed entusiasmo”, come più volte mi ripeteva, cominciò il suo lavoro con i bambini scampati allo sterminio, poi con bambini ebrei provenienti dai paesi arabi, dal Marocco, dalla Libia e dallo Yemen. Infine con gli ebrei di origine etiope giunti in Israele dopo terribili peripezie con l’operazione “Mosè”. Un importante materiale che orgogliosamente mi mostrava e che andrebbe rivisitato e studiato. Nelle nostre conversazioni a Gerusalemme mi diceva: “David, perché non mi rappresenti tu in Italia e in Europa?”. Al che rispondevo: “Perché siamo amici e vorrei restare tale per sempre”. Alle mie parole, che segnavano insieme una distanza e una profonda vicinanza, rideva affettuosamente. Il suo più grande desiderio era di poter inserire il suo metodo tra i percorsi educativi dei nostri studenti. Sarebbe stato interessante un approfondimento del suo pensiero e sul suo metodo all’interno di un percorso dedicato alla grande stagione inaugurata da Vigotskij: un Master di specializzazione. Solo che nel frattempo ne dirigevo altri due: uno sulla didattica della Shoah, che era l’unico in Italia e un altro sui disturbi alimentari, realizzato in collaborazione con l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù. Un terzo Master sarebbe stato impossibile, anche per il regolamento universitario. Così scegliemmo insieme di inserire una riflessione sulla sua metodologia agli ambiti studiati nei due Master. Una sfida affascinante che avrei voluto approfondire con una ricerca d’archivio sulle attività educative in Israele negli anni cinquanta. Tra le idee che abbiamo più volte discusso, e che purtroppo non abbiamo potuto realizzare, c’era un progetto di formazione di 300 educatori per i villaggi africani. Scherzando una volta gli chiesi, come mai insistesse sul numero 300. Mi guardò con i suoi occhi da fanciullo: “Non lo so. Un motivo ci sarà”. Reagì con un sorriso quando gli dissi che aveva forse tratto ispirazione dal racconto biblico dei trecento combattenti scelti da Ghideon per affrontare i filistei. Col fratello Shmuel, morto nel 2018, la conversazione prendeva altre strade. Da un’angolatura filosofica e teologica Shmuel aveva dedicato un interessante studio delle fonti bibliche e talmudiche delle teorie educative sviluppate da Reuven. Rabbino e filosofo, Shmuel amava parlare delle differenze tra gli imperativi che provengono dal pensiero biblico e da quelli di Socrate. Con lui si poteva parlare per ore ed era piacevole vedere quanto i due si rispettassero ascoltando mentre uno dei due parlava.
L’idea che un limite di partenza fosse un insanabile era un lusso che la società israeliana in formazione non poteva, né di doveva permettere. Negli anni cinquanta non c’era persona nel Paese che non fosse segnato dalla tragedia. Se non era egli stesso un sopravvissuto, i suoi parenti erano scomparsi nei Lager. Talora era l’intera comunità di origine ad essere stata sterminata. Poi vi erano i caduti in una sanguinosa guerra di distruzione scatenata dagli Stati vicini, che gli israeliani per iniettarsi dell’ottimismo e percepirsi come gli altri popoli e nazioni, chiamavano “guerra di liberazione” (milchemeth ha-shichrur). Infine c’erano le masse di diseredati, sfuggiti ai pogrom dei paesi arabi, accampati nelle baracche sino alla metà degli anni sessanta, perché il Paese nonostante l’enorme sforzo fatto non poteva dare di più.
“Per noi israeliani – mi ripeteva con amara ironia, negli anni settanta, un esponente politico della sinistra laburista impegnato nella difficile ricerca del dialogo col mondo arabo – non è concesso essere pessimisti. Sarebbe un atto letale per la nostra stessa sopravvivenza!”. Ricordo di avergli risposto che nella Bibbia c’era un pensiero analogo che coinvolgeva la Divinità, visto che nel corso della sua opera meravigliosa, per ben due volte, nel terzo e nel sesto giorno della Creazione, sentì il bisogno di ripetere che l’opera era buona, augurandosi che il genere umano, cui aveva consegnato il diritto di scegliere tra la morte e la vita, non la distruggesse con le proprie mani. Di formazione laica, era rimasto sorpreso che il testo biblico potesse essere letto come un testo da scandagliare. “È quello che la tradizione ebraica ha fatto per millenni, perché non si saturasse. La grandezza di Freud , aggiunsi, è di avere trasferito una tecnica nata nelle accademie talmudiche, per esplorare la vita psichica. Non per caso nell’Interpretazione dei sogni affermò di avere trattato il sogno come un testo sacro”.
Senza una buona dose di ottimismo che si acquisisce e si consolida nelle prime relazioni, sarebbe difficile sopportare il fardello dell’esistenza. Le fiabe che i genitori raccontano ogni giorni ai figli prima di dormire servono anche a coltivare un sano ottimismo che protegga dalla disperazione.
Pensare che i traumi e i limiti di partenza siano un limite invalicabile, per un paese composto per oltre due terzi da immigrati il cui mondo era andato in frantumi, poteva significare una condanna irrevocabile. Credere nella possibilità di cambiare il proprio destino, di inventare un futuro diverso nonostante il passato e le ferite del presente, essere per così dire, ottimisti, era una necessità prima che una verità scientifica. La teoria della modificabilità cognitiva strutturale che Feuerstein riprese da Lev Vigotskij, uno tra i massimi studiosi dell’educazione del Novecento, trovò in Israele un contesto particolarmente favorevole, per essere accolta e valorizzata. Feuesrtein si era avvicinato al pensiero di Piaget, distaccandosene in seguito, negli anni cinquanta, quando si era recato in Svizzera per essere curato dalla tubercolosi contratta lavorando con i bambini scampati ai lager. L’essenziale del suo approccio, che rendeva il suo contributo complementare alla costruzione del grande psicologo ginevrino, era presente sin dagli inizi del suo lavoro come educatore e come psicologo. Il suo approccio era il prodotto di una grande temperie storica e di una resilienza coltivata nei secoli e che poneva al centro il valore dell’esistenza umana.
Negli anni in cui Feuerstein perfezionava il suo metodo il suo metodo, Moshè Feldenkrais, un ingegnere ebreo di origini russe, muovendo da un ambito completamente diverso, dallo studio delle particelle subatomiche, e a partire dalla pratica delle arti marziali, era approdato a conclusioni non dissimili sulle potenzialità insite nel cervello umano di inventare percorsi nuovi di apprendimento. Laddove una persona colpita da un trauma fisico o psichico, avesse incontrato qualcuno in grado di capirlo e di sostenerlo adeguatamente, non tutto era da considerarsi perduto. Il quadro di riferimento dei lavori di Feldenkrais era diverso, la lezione che se ne traeva era la stessa: i danni di partenza, e quelli subiti, non devono costituire una condanna irreversibile. Anche nelle situazioni più difficili, non bisogna perdersi d’animo. Occorre poter sognare e immaginare un mondo migliore per sé e per gli altri.
David Meghnagi, psicanalista
(23 marzo 2021)