La violenza del rifiuto
e le risposte costruttive

Nell’ultima settimana mi hanno colpito due fatti oltremodo “istruttivi” circa la carenza di condivisione umana e sociale intorno ai temi emergenti, brucianti del rifiuto dell’altro. Da un lato l’immediata reazione negativa (quasi un riflesso condizionato) di Matteo Salvini – e con lui di tutto il centrodestra – alla coraggiosa e intelligente proposta del neo-segretario PD Enrico Letta volta a rilanciare la battaglia per l’adozione dello ius soli in Italia. Dall’altro la mancata partecipazione dei sindaci di Bologna (Virginio Merola) e Palermo (Leoluca Orlando) al vertice internazionale dei sindaci sull’antisemitismo, provocata dalle pressioni di gruppi filo-palestinesi. Proviamo ad analizzare da vicino le due vicende.
Esiste e purtroppo persiste un settore della società italiana, di cui con chiari fini elettorali Salvini si è da tempo auto-investito interprete, che si mostra nemico convinto dei valori umani, impermeabile al basilare concetto di uguaglianza di diritti/doveri tra gli uomini.
Perché mai persone che nascono in territorio italiano da genitori stranieri ma di cui uno nato in Italia o residente in Italia da almeno un anno (così prevede a grandi linee la proposta di legge Boldrini ferma da tempo in Parlamento) non devono potersi dire italiane? Perché, contro ogni evidenza di solidarietà umana e contro le forti esigenze di integrazione di chi risiede qui da anni, deve continuare a vigere solo il remoto jus sanguinis che così da vicino ci ricorda il sinistro Blut und Boden? Negli Stati Uniti – che con tutte le loro contraddizioni e mancanze restano indiscutibile modello di democrazia – lo jus soli esiste da sempre, connaturato alla nascita e alla storia di un grande Paese fondato sui processi di immigrazione, di accoglienza, di integrazione. Nel populismo di oggi invece (tra tutti i populisti, si noti; anche molti Cinque Stelle storcono il naso davanti allo jus soli) prevale, a garanzia di una indiscutibile italianità, l’esaltazione dell’identità familiare locale: proprio questo, tra l’altro, sottintende l’abusata espressione “prima gli italiani”. E’ un’esaltazione che non saprei come definire se non post-fascista, analoga all’orgoglio razzista con cui il fascismo inneggiava alla “stirpe italica”.
Altrettanto ottusa e preoccupante appare la rinuncia dei primi cittadini di Bologna e di Palermo al vertice internazionale dei sindaci sull’antisemitismo. L’intervento di gruppi anti-israeliani/filo-palestinesi – teso a produrre un mutamento d’orizzonte grave e netto dal punto di vista dei contenuti – e la scelta stessa di non essere presenti si qualificano di per sé come atti potenzialmente antisemiti. Da un lato infatti sono comportamenti finalizzati a sottovalutare l’odio antisemita e le sue conseguenze sociali collettive; dall’altro svelano con un contorcimento logico aberrante il loro vero volto: non partecipiamo all’incontro perché schierarsi apertamente contro l’antisemitismo significa accettare/appoggiare Israele e farlo vuol dire rinnegare i diritti del popolo palestinese (e perché mai non rinnegare Israele dovrebbe voler dire calpestare i diritti dei palestinesi?). In questo atteggiamento, criticato con forza dalla Presidente UCEI Noemi Di Segni, emerge nei fatti il profilo dell’antisionismo/antisemitismo d’oggi, teso a isolare Israele, a farne uno Stato-paria a livello internazionale, a suscitare nei suoi confronti condanna e disprezzo, proprio come l’antisemitismo classico fa nei confronti degli ebrei e dell’ebraismo: è quanto purtroppo accade da anni, ad opera del movimento BDS e di prestigiose università che si accaniscono nel boicottaggio contro i maggiori atenei israeliani. La rinuncia dei sindaci di Bologna e di Palermo condiziona la propria idea di giustizia/eguaglianza al ricatto morale di ciò che appare “politcally correct” secondo uno stereotipo attuale del tutto privo di fondamento (la difficile condizione della popolazione palestinese, infatti, è oggi soprattutto causata dagli stessi vertici politici palestinesi, corrotti e violenti) e completamente sconnesso rispetto al crescendo minaccioso dell’antisemitismo. È, di fatto, la scelta di voltarsi dall’altra parte di fronte al montare dell’odio e ai suoi disgreganti effetti sociali; è, attraverso la rimozione del problema, la scelta di ricacciare di nuovo gli ebrei nell’angolo del rifiuto e del disprezzo.
Per fortuna arrivano anche indirette risposte a queste manifestazioni di intolleranza. Due sono giunte in questa stessa settimana. La prima, la più coinvolgente perché viene dai giovani, è quella della Marcia Emanuele Artom, che da dieci anni è organizzata da Comunità di Sant’Egidio, Comune di Torino, Consiglio Regionale del Piemonte, Comunità Ebraiche di Torino, Casale e Vercelli. L’edizione in streaming di quest’anno era dedicata alle parole contro l’odio, nel nome del giovane partigiano ebreo morto alle Carceri Nuove nell’aprile 1944 per le torture subite da nazisti e fascisti. “Responsabilità” è stata la parola scelta e illustrata dagli alunni della Scuola Media Ebraica “Emanuele Artom”: responsabilità morale, civile, politica nei confronti della collettività. “Coraggio”, il termine analizzato dagli allievi della Scuola Media “Piero Calamandrei”: coraggio di affrontare il male, di guardare oltre, di lavorare con responsabilità per il futuro rifiutando l’odio. “Insieme, dialogo, gentilezza”, le parole opportunamente aggiunte nel suo intervento dalla responsabile regionale della Comunità di Sant’Egidio Daniela Sironi, sulla scia di Emanuele Artom (partigiano senza armi e commissario politico GL sempre pronto al colloquio) e di Papa Francesco.
La seconda risposta, più analitica in senso storico sociale e politico, ci arriva dalla tavola rotonda on line “L’antisemitismo ritorna. Cosa fare?”, organizzata dall’Istituto Storico della Resistenza di Torino con la partecipazione del direttore de “La Stampa” Massimo Giannini, del giudice Paolo Borgna, della professoressa Milena Santerini coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, dello storico Fabio Levi direttore del Centro Internazionale di Studi Primo Levi. Occorre non sottovalutare l’attuale odio anti-ebraico, legato nelle sue coordinate costanti a un inossidabile antisemitismo storico eppure capace di riproporsi con impronta rinnovata nel coacervo del dilagante complottismo emergente in tempi di pandemia. Occorre soprattutto comprendere e ribadire che la patologia antisemita è infezione che attenta al corpo dell’intera società, non “questione privata” tra gruppi di fanatici e una minoranza invisa ad alcuni. Occorre, sul piano concreto, che non ci si limiti a prendere atto con rammarico del tarlo che odiosamente rode il piano della convivenza, ma che ciascuno reagisca con azioni di civiltà e di solidarietà costruttiva capaci di contrapporsi all’odio nel segno della comunità sociale.
Analizzare, riflettere, dialogare, rispondere con l’azione in modo positivo pur sapendo che tentare di costruire contro un inestinguibile rifiuto sarà spesso frustrante. Questo è lo spirito forte che deve animare la nostra società.
David Sorani

(23 marzo 2021)