Il Seder, il ricordo dell’Egitto
e i silenzi di papà Nedo
Tra pochi giorni le famiglie ebraiche torneranno a sedersi alla tavola del Seder di Pesach. Un appuntamento che si rinnova da millenni ed è al centro di uno dei capitoli più significativi de Il profumo di mio padre (ed. Piemme): la storia di Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz e tra i primi Testimoni italiani a rompere il silenzio, raccontata dal figlio Emanuele.
Per gentile concessione dell’autore ve ne proponiamo un brano.
Avadim Ainu (fummo schiavi) è un brano che si legge ogni anno nella celebrazione serale del Pèsach, la cosiddetta Pasqua ebraica; è sempre stato un passaggio fisso, un appuntamento, fin da piccolo, fin da quando mi ricordi io.
I primi sedarim (cene della Pasqua ebraica) sono stampati nella mia mente per sempre; erano quelli che svolgevamo a casa del Rabbino Capo, Elia Kopciowsky, un amico caro dei miei, che nonostante il cognome così chiaramente dell’est, polacco, aveva un accento dolce, romano, e tendeva sempre a trasformare in una lezione le sue parole.
Io lo chiamavo Yom Hashishì, che vuol dire sesto giorno, perché era sempre lui, quando io piccolissimo frequentavo la sinagoga di via Eupili, a intonare il Kiddush, la preghiera di santificazione del sabato e del riposo, della cessazione dei lavori, che è la radice della parola Shabbath, da cui sabato, e che appunto inizia con il racconto della fine della creazione narrando di quando: «Nel sesto giorno (Yom Hashishì) furono completati il cielo, la terra e le loro schiere. E Dio terminò nel settimo giorno il regno che aveva creato e Dio si riposò nel settimo giorno da qualsiasi lavoro che aveva fatto, e benedisse Dio il settimo giorno e lo santificò, perché venne il riposo per il regno creato».
Di questa preghiera, io non dimenticherò mai la melodia del canto intonato alla fiorentina da papà, anche se qui a Milano è un canto non conosciuto da nessuno. E che ormai, male, ricordiamo probabilmente solo noi fratelli.
Nelle sere del Pèsach, quella che nella successiva tradizione cattolica è diventata la Pasqua anche se con significati diversi, c’è un passaggio cantato particolare che si chiama Avadim Ainu (fummo schiavi), in quella cena che si chiama appunto Seder (ordine) e nel quale si narra pubblicamente ai commensali dell’uscita del popolo ebraico dalla terra d’Egitto, quello, un minuto prima della narrazione del «noi fummo schiavi» era il momento di mio padre. Era il legame tra gli schiavi ebrei che costruivano le piramidi e i compagni di papà con la casacca a righe gasati a Birkenau. Era il suo modo di spiegarci cosa voleva dire mantenere il ricordo della schiavitù per sempre e la difesa della libertà come valore supremo. A me però non piaceva che chiedessero a lui di leggere o di commentare, mi imbarazzava, e anche mi commuoveva il suo dolore. Quella casa del rabbino Elia Yom Hashishì era senza scampo: grande, estranea, con a capo il temuto rabbino con il pizzetto, non si poteva scappare, quello era il momento in cui papà doveva parlare e piangere, davanti a tutti. Tra un bicchiere di vino e l’altro.
Avadim Hayinu lepharò bemitzraym atà benei horin.
Fummo schiavi presso il Faraone in Egitto, adesso siamo uomini liberi.
Dunque, era quello il momento in cui veniva chiesto a papà, in genere scherzoso e gioviale, positivo, di leggere quel brano e di commentarlo, perché era lui che aveva conosciuto in epoca moderna, ai giorni nostri, la schiavitù, l’essere privo di libertà. Lui era stato schiavo, lui poteva raccontare.
Papà cominciava, ma poi gli si rompeva il fiato in gola, e tutti attendevano che la commozione o la memoria che risaliva gli permettessero di parlare, di ricordare agli altri, che gli schiavi non erano stati solo in Egitto, ma ai giorni nostri in Polonia, in Germania, in Italia. E papà piangeva e qualche piccola cosa raccontava, e faceva di quel Seder non una commemorazione di cose antiche e lontane, ma carne viva di adesso, di sempre. Come se al posto degli ebrei di Mosè, con capelli e barbe lunghe e con lunghi caffettani di lana, si presentassero davanti a noi, nel salotto Kopciowsky, tanti uomini magrissimi, rasati a zero, fantasmi inscheletriti dalla fame, ricoperti di casacche a righe e che avevano le nostre sembianze perché erano stati nostri nonni, e nonne, zii e nipoti. Come morti che risorgevano attraverso la voce di papà.
Per me, in più, non era la storia che venivo a scoprire, o la memoria di famiglia, era il papà che trasfigurava, da uomo forte, bello, eroe, come per tutti i bambini, a essere umano ferito, piangente, debole, e anche in fondo diverso, dagli altri che ci circondavano.
Una diversità che mi trasmetteva perché quello che lì soffriva e piangeva, al di là che la storia fosse conosciuta da tutti, era il mio papà, non di altri.
Emanuele Fiano – Il profumo di mio padre (ed. Piemme)
(25 marzo 2021)