La speranza di un’uscita

“Ma a chi parlarne, se non incontravo segno di vita? Tutto, dai sobborghi al centro, chiuso, silenzioso, vuoto. Tutto a posto e in ordine ma fuori dal tempo, perché è l’uomo che fa il tempo delle cose, e non si vedeva un uomo. Non ne rimaneva uno.”
L’unico personaggio di Dissipatio H.G. di Guido Morselli (1977) si aggira per le strade vuote di una Crisopoli/Zurigo spettrale, dove l’umanità è improvvisamente scomparsa, “dissipata”, senza alcune ragione tangibile. Essere rimasto l’unico uomo sulla terra sembra non toccare il protagonista particolarmente, ogni tanto prova a mettersi in contatto telefonico con qualche sconosciuto, ma ciò che pare premergli di più è la ricerca del Dottor Karpinsky, il medico ebreo che lo seguiva durante i mesi trascorsi come ricoverato in una clinica. Il libro di Morselli è stato più volte rievocato durante l’attuale pandemia, come tante altre opere che trattano di epidemie e di apocalissi. Ma qui la catastrofe, almeno agli occhi di chi legge, è soprattutto la solitudine. Qualcosa con cui, sempre circondati da tanta vera o supposta socialità, prima della pandemia non avevamo fatto bene i conti. A maggio dell’anno scorso, il cupo Michael Houellebecq definì il Covid-19 un “virus senza qualità”, così banale al punto che probabilmente nemmeno la letteratura vi avrebbe tratto ispirazione per scrivervi a proposito. Anzi, aggiunse, “tutto sarà in fondo come prima”. Ignoto sapere che cosa rimarrà in futuro di quest’anno, di questi “tempi morti”, cosa ricorderemo. Trovo interessante però notare che al contrario della letteratura, la musica, persino quella “di consumo” abbia introiettato la pandemia e i riferimenti ad essa siano spesso così presenti all’interno di brani musicali. La musica, quella pop e non intellettuale soprattutto, è in genere pensata per permanere nel tempo, al di là dei singoli periodi e fatti storici. Mi ha colpito per esempio la visione casuale di un videoclip di una celebre cantante presente al Festival di Sanremo, Malika Ayane: si vedono tre coinquiline in una casa che svolgono delle normali attività, ma a mano a mano che il video va avanti si scopre che esse sono confinate in casa e che comunicano con l’esterno attraverso videochiamate con altri “quarantenati”. Persino le finestre che danno luce alla casa sono piuttosto delle grate che la fanno assomigliare più a una cella. Ancora di più mi ha sconvolto che i commenti sotto al video siano tutti incentrati sulle qualità canore della cantante e sulla sua esibizione al Festival, ma non sui soggetti e sul contesto del video, come se questa sia ormai la nostra “normalità”. Del resto, anche il protagonista di Dissipatio H.G. nel suo pessimismo cosmico sembra abituarsi ad un mondo apocalittico privo di esseri umani, “il Mercato dei Mercati si cambierà in campagna”, una prospettiva ecologica radicale non potrebbe auspicare di meglio. Ma l’abitudine e l’assuefazione a una condizione negativa è il peggior male, smettere di pensare che possa ancora esistere un modo di vivere migliore, e così anche cessare di ricercare un’armonia tra uomo e natura pensando che l’unica soluzione sia che l’uno cedi il posto all’altro. Anche gli israeliti nella loro fuga dall’Egitto finiscono spesso per lamentarsi e sostenere che in fondo “in schiavitù si stava meglio, i viveri almeno non mancavano”. Perché lasciare un luogo comunque sicuro per viaggiare lungamente verso una terra sconosciuta, soltanto raccontata e immaginata? Molto facile adattarsi a qualcosa di disagevole, che sia la solitudine di Crisopoli o la schiavitù in Egitto, e potremmo finire per abituarci (o lo stiamo già facendo?) anche alla pseudo-esistenza dell’ultimo anno e a tutte le vittime che questo virus continua a portarsi via, integrarlo nel nostro quotidiano. Tendere a qualcos’altro, continuare a preservare la costante speranza di un’uscita, di una liberazione vicina, sicuramente è più complesso, ma ne vale la pena.

Francesco Moises Bassano