Pesach di riflessione

Siamo nel cuore del secondo Pesach consecutivo di pandemia; ancora una volta trascorriamo la festa in semi-isolamento, anche se con qualche possibilità di ritrovarci in piccoli nuclei. Più ancora dell’anno scorso abbiamo sentito la mancanza dei grandi Sedarim di gruppo, nei quali la gioia della liberazione dalla schiavitù – quella d’Egitto insieme alle mille schiavitù fittizie con cui ci assedia il mondo contemporaneo – e la forza dell’avvertire noi stessi come popolo unito in una plurimillenaria tradizione comune sono potentemente alimentate dal vincolo dello stare insieme e dei canti corali. Per quanto meno radicale, la separazione è stata più che mai una recisione, una perdita secca che ha certo alterato la celebrazione.
Eppure, anche un’esperienza riduttiva può essere fonte di riflessioni e di arricchimento interiore. Per me, a livello individuale, Pesach 5781 ha di fatto segnato l’uscita dal Covid-19: una malattia che mi ha colpito con subdola aggressività, facendomi davvero paura e comunicandomi un senso di diffusa fragilità. Quest’anno vivo dunque la festa con sentimenti di rinascita, di liberazione, di gratitudine più forti del solito (riconoscenza per il giovane medico che mi ha curato, per le cure stesse…e, più in alto, per Chi provvede). Nel mio piccolo, ritrovo l’espressione perfetta di quel che provo nel III movimento del Quartetto op. 132 in La minore di Ludwig van Beethoven, intitolato dallo stesso musicista “Canzone di ringraziamento di un guarito alla divinità”: la rarefazione sonora, la trascendenza spirituale e metafisica dirette verso una dimensione superiore, accanto a un concreto e sorridente senso della vita che si rianima.
Andando oltre la prospettiva personale, varie sono le direzioni di pensiero a cui ci spinge questo Pesach di incontri forzatamente limitati. Con la forza fisica di qualcosa che ci è sottratto avvertiamo la centralità irrinunciabile dell’elemento sociale nell’ebraismo, sentiamo sulla nostra pelle e nei nostri cuori il valore impagabile del compiere tutti insieme la mitzvà, del ripercorrere uniti la strada della liberazione; e forse, per un paradossale senso di mancanza, pur separati lo percepiamo ancora più forte. Insieme a questa forza unitaria che manca, ci colpisce e ci spinge a riflettere il senso della precarietà umana, della nostra dipendenza assoluta dalla Natura e dalle sue multiformi, spesso maligne conformazioni (come il Coronavirus, appunto). Ma non è detto che si debba guardare ad essa, con scettico occhio leopardiano, come a una potenza distruttrice. La Natura, così imprevedibile attraverso le epidemie e le tante altre sue manifestazioni sconvolgenti, è oggi analizzata e compresa a fondo dalla scienza, che quando serve riesce a intervenire e a contrapporsi ad essa, come nel caso degli attuali vaccini anti-Covid. Rinsaldando la fiducia nell’uomo e nelle sue conoscenze, l’attuale Pesach pandemico ci spinge – anche attraverso l’invito a salvaguardare la nostra vita – a cogliere la Natura e i suoi effetti (dei quali anche noi facciamo parte) quali opere positive della Trascendenza divina, alle quali l’uomo stesso può apportare il suo contributo. Non è anche questo, in fondo, il significato latente del “Dayenu” che cantiamo durante il Seder, l’accettazione consapevole e coraggiosa di ciò che è per noi ineluttabile ?
Nell’orizzonte più solitario o quantomeno familiare impostoci dall’odierno parziale lockdown, la dimensione del divino può apparirci forse più vicina (domestica?), meno corale e più raccolta. In tale “spazio ridotto” la libertà/liberazione che noi ricordiamo e celebriamo, insieme al suo basilare senso nazionale/istituzionale (la nascita cioè del popolo ebraico e contemporaneamente di una tradizione di ricordo ritualizzato che lo lega a questo evento fondante), assume una prospettiva ulteriore, più intima e interiorizzata.
David Sorani

(30 marzo 2021)