Periscopio – Libertà irrinunciabile

Il primo giorno di Pesach 5679-1919, rav Samuele Colombo (bisnonno, tra gli altri, di Ariel e Alessandro Viterbo, il primo noto e raffinato poeta, il secondo dirigente di Tsad Kadima, la benemerita associazione che, in Erez Israel, dà sostegno ai ragazzi con difficoltà), pronunciò un discorso, al Tempio di Livorno, di cui vale proprio la pena, a distanza di un secolo, rileggere almeno qualche passo (e ringrazio vivamente Ariel di avermelo inviato):

“Quel che un giorno, molto lontano, accadde ai nostri padri, accade oggi stesso anche a noi direttissimi nipoti.
Molteplice è il significato, come di tutte le nostre solennità, così anche di Pasqua: significato ispirantesi alla natura, alla storia, alla civilità, alla morale, in una parola alla religione: significato che interessa la famiglia e la nazione, Israele solo e Israele con i popoli, il corpo e lʼanima, la Terra e il Cielo, il passato e il presente, il tempo e lʼeternità. È evidente allora che, più uno riesce ad internarsi in questi importantissimi significati, ad uno ad uno o in tutto il loro insieme, più ancora riuscirà a capire la grande ragione dʼessere di tutte quelle nostre grandi e solenni giornate, non soltanto nella loro origine e nei tempi andati ma anche nel presente e nellʼavvenire. Penetrato che uno sia in quella grande ragione vedrà tutto chiaro davanti a sé e sentirà come quelle grandi giornate siano parte ragguardevole ed essenziale della propria vita e dellʼaltrui, dellʼindividuo come della nazione, in qualunque punto dello spazio e in qualunque momento del tempo e dellʼeternità…
Lascio allora immaginare – che dico? – non è il caso di immaginare, è il caso invece di sentirla profondamente e di viverla veramente anche noi la Pasqua di questʼanno 5679 [=1919] che segna lʼuniversale riconoscimento della nazione ebraica e la vera liberazione di milioni di nostri fratelli da varie e diverse schiavitù, peggiori assai dellʼegiziana antica, e il loro avviamento non attraverso un deserto di dubbi, di incertezze e di pentimenti ma direttamente, colla piena consapevolezza di ciò che uno fa e di ciò che uno vuole, verso quella Terra che era stata il sogno vagheggiato di mille e mille generazioni.
Quello stesso fatto che accadde un giorno molto lontano ai nostri nonni, oggi, proprio oggi accade a noi stessi!”.

Quando Rav Colombo pronunciava queste parole, l’Europa era da poco uscita da un conflitto armato planetario di immani proporzioni, che aveva falcidiato milioni di vite, di tutte le nazionalità. Molti ebrei italiani, come la grande maggioranza dei loro connazionali, avevano creduto nella “guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre”, e ritenevano che l’ampliamento dei confini della madre patria, in modo da potervi ricomprendere quegli italiani che ne erano ancora fuori, giustificasse l’immenso tributo di sangue pagato da tanti nostri giovanissimi soldati, falcidiati sulle trincee del nord dal fuoco nemico. Sapevano anche che su tanti campi di battaglia d’Europa militari ebrei avevano fatto fuoco gli uni contro gli altri, vestendo divise diverse: italiane, austroungariche, francesi, inglesi, tedesche, americane, turche, russe… Ogni guerra è sempre una guerra civile, è stato detto, e il fatto che in questa guerra civile si uccidessero giovani che, poco prima, si erano affidati al medesimo Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, recitando l’identico Shema’ Israel, rese questa realtà ancora più cruda e intollerabile.
Ma, come si ricava dalle parole del discorso riportate, in quell’anno 5679, sia pure al cospetto di una montagna di morti, Rav Colombo aveva fondati motivi di speranza. L’esito della guerra dimostrava che l’antico viaggio di libertà di Mosè, oltre tremila anni dopo, tornava una realtà concreta, nelle forme del visionario sogno sionista. L’antica patria degli ebrei, tra gli ulivi e il deserto, tornava a popolarsi di volti, suoni, colori, e una parte importante del mondo dei gentili pareva guardare a questa rinascita senza ostilità.
“Quello stesso fatto che accadde un giorno molto lontano ai nostri nonni, oggi, proprio oggi accade a noi stessi!”, scriveva Rav Colombo. E pare di sentire l’orgoglio, la speranza, la fierezza della sua voce, animata da quella grande visione di riscatto e liberazione.
Quel sogno, meno di trent’anni dopo, sarebbe diventato realtà. Ma che tono avrebbe avuto, la voce del Rav, se egli avesse potuto lontanamente immaginare cosa, di lì a pochi anni, attendeva il mondo, e, in particolare, il suo popolo?
Ma la haggadah di Pesach non è solo un racconto di liberazione, non è una semplice narrazione con “happy end”. In essa è inciso anche tanto dolore, tanta tragedia, sia tra i figli d’Israele che tra quelli d’Egitto. Nel bene e nel male, nella gioia e nella sofferenza, il senso profondo di quelle eterne parole resta che la libertà e la dignità dell’uomo sono beni irrinunciabili, e che è dovere inderogabile, per chiunque ne abbia la possibilità, quello di lottare per perseguirle e conservarle, anche in nome di chi sia invece impotente di fronte alle forze del male.

Francesco Lucrezi, storico