Machshevet Israel – Harari
Dieci anni fa usciva in ebraico il volume “Breve storia dell’umanità” dello storico israeliano Yuval Noah Harari, classe 1976, Ph.D. preso ad Oxford e docente all’università ebraica di Gerusalemme. L’opera è stata tradotta in trenta lingue e ha venduto 16 milioni di copie nel mondo (in italiano porta il titolo “Sapiens. Da animali a dèi” ed è pubblicato da Bompiani). Da poco ne è in circolazione persino la versione graphic novel. Non ne tratterei qui se non fosse per un fatterello: a una lezione di filosofia ebraica chiesi ai miei studenti se conoscessero dei filosofi israeliani viventi – intendendo pensatori che si occupano, con categorie filosofiche, del giudaismo – e, con mia sorpresa (da ignorante), il primo nome è stato quello di Harari. Giorni dopo mi ci sono buttato, oltre cinquecento pagine che ho divorato in due settimane. Libro a un tempo affascinante e perturbante, pieno di fatti e di idee e di conferme e di provocazioni, merita seria considerazione e non l’indifferenza tipica di certa accademia che rimuove i long-best-seller ora per snobismo ora, più spesso che non, per invidia.
Sebbene si presenti come un’opera di storia (e lo è, infatti), il volume contiene molta filosofia (non ebraica), almeno nel comune senso del termine. A ben vedere, organizza la storia umana – quella dell’homo sapiens – a partire da una visione filosofica che, in modo un po’ rozzo, definirei evoluzionista. Anzi, sarebbe solo un vezzo narcisistico dei sapiens quello di pensare gli stadi recenti della propria evoluzione con il nobile nome di storia, ed è solo arroganza quello di voler separare la cultura dalla natura: le nostre culture – un tempo assai diversificate e oggi sempre più global-omologate – sono in vero un prodotto di evoluzione naturale, e la natura, allo stato (ancora embrionale) delle nostre conoscenze, si spiega da sé, sebbene i sapiens abbiano prodotto un’infinità di miti, leggende e religioni per spiegare come essi stessi sono emersi dal flusso natural-evolutivo delle cose, arrivando a dominare alcuni segreti (bio-chimici) della vita. Se non è filosofia questa… Da Talete in poi la pretesa dei filosofi è dirci chi siamo, da dove veniamo e – forse – dove stiamo andando. E questo fa Yuval Noah Harari nei suoi libri, soprattutto quelli scritti più di recente.
Permettiamoci una citazione: “Gli umani sono il risultato di ciechi processi evoluzionistici che agiscono senza un obiettivo e uno scopo. Le nostre azioni non fanno parte di un cosmico progetto divino, e se il pianeta Terra dovesse scoppiare domani mattina, l’universo probabilmente andrebbe avanti nel suo funzionamento come al solito. Per quanto possiamo dire, la soggettività umana non sarebbe avvertita come un’assenza. Per cui qualsiasi significato possiamo assegnare alle nostre vite è semplicemente un’illusione. I significati ultraterreni che nel Medioevo la gente attribuiva alla propria vita non erano più illusori dei significati di tipo umanistico, nazionalistico e capitalistico tipici degli uomini moderni. Lo scienziato che afferma che la propria vita è significativa perché incrementa il patrimonio delle conoscenze umane, il soldato che dichiara la sua vita significativa perché combatte per difendere la sua patria e l’imprenditore che trova significativo il fatto di fondare una nuova compagnia non sono meno deliranti delle loro controparti medievali che trovavano significativo leggere le Sacre Scritture, partecipare alle crociate o costruire una nuova cattedrale” (p.486). Wow!
Cosa c’è di ebraico in questo libro o in questa filosofia della storia, pardon, dell’evoluzione che in settanta mila anni – un batter di ciglia nella ‘storia’ dell’universo – ci ha condotti dalla condizione di animali a quella di dèi? Quasi nulla. Semmai c’è qualcosa dell’antropo-terapeutica buddhista che Harari ha scoperto ad Oxford (lui non la chiama ‘religione’) e con la quale tra le righe simpatizza. Il suo buddhismo, la sua omosessualità e il suo veganismo nulla aggiungono e nulla tolgono a un’impresa intellettuale che ha dei punti forti e dei punti deboli, anche in una (illusoria per lui, chilonì tutto d’un pezzo) prospettiva ebraica. Punti di forza: l’enfasi sul nostro essere anzitutto ‘natura’ ossia animali, condizione che spesso dimentichiamo per marcare la differenza con il resto del mondo vivente, dandoci un ingiustificato alibi per meglio sfruttarlo a nostro favore; il che comporta una visione non-più-antropocentrica della storia del mondo ma anche un superamento della falsa superiorità delle scienze dello spirito sulle scienze della natura (che tanta parte ha avuto nelle nostre auto-coscienze di sapiens); il narrare la storia recente dell’umanità in un’ottica non più eurocentrica e insieme, l’abbandonare, cosa non facile per un israeliano, un certo israelocentrismo. Punti di debolezza: l’aver scelto il naturalismo come chiave pressoché unica per declinare la vicenda evolutiva della vita sulla terra, il che lo porta a sottovalutare la maturazione etica che ha accompagnato i successi (e le sopraffazioni) dei sapiens, nonché le differenze qualitative tra miti e ideologie e religioni, e forse l’aver ignorato il ruolo della sfera del diritto come un tratto peculiare dell’evoluzione sociale e politica degli umani. Senza questa tensione etica, esaltata dalla narrativa religiosa, non ha certo senso mettere in guardia i sapiens dall’eccesso euristico-tecnologico – la vecchia hybris – che potrebbe condurli in breve tempo all’autodistruzione. Sappiamo bene (forse) chi siamo e da dove veniamo, ma non sappiamo affatto dove stiamo andando… Sì, è vero: non è un’opera di filosofia ebraica ma fa pensare anche il mondo degli ebrei e viene da un ebreo israeliano che non ha perduto il gusto della provocazione dis-sacrante.
Mi ha ricordato un aneddoto talmudico (dal trattato Shabbat 33b) in cui sono protagonisti Rabbi Yehuda bar Ilai e Rabbi Jochanan bar Jochai. “Come sono belle – esclamò Rabbi Yehuda – le opere dei romani: hanno fatto strade e mercati, costruito ponti, eretto bagni pubblici…” suscitando il sarcasmo di Rabbi Jochanan: “Sì, hanno fatto strade e mercati per metterci le prostitute, ponti per riscuotere il denaro dei pedaggi, bagni per deliziare nei piaceri i loro corpi!”. La storia, anche quella più naturalistica, ha sempre (almeno) due facce e molteplici interpretazioni. Harari ce ne restituisce una che tendiamo a dimenticare.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(1 aprile 2021)