Rav Elia Richetti: “Ecco la mia Milano”

Dall’impronta ebraica in un luogo inaspettato come Sant’Ambrogio al “grande cuore del tempio di via Eupili” fino alla rinascita della sinagoga di via Guastalla. Un viaggio tra ricordi personali e racconti tramandati della storia ebraica della città di Milano attraverso gli occhi di rav Elia Richetti. Con grande disponibilità, con il sorriso e una prospettiva sempre originale, il rav aveva raccolto con entusiasmo l’invito della redazione UCEI di raccontare la sua Milano ebraica. E così, mese dopo mese, aveva accompagnato i lettori in luoghi più e meno noti dell’ebraismo milanese. Quale migliore guida di un rabbino che a Milano è nato e cresciuto, respirando la vita di una Comunità che si ricostruiva dopo la guerra guidata per oltre vent’anni da suo nonno, rav Ermanno Friedenthal? Comunità che rav Richetti ha continuato a vivere: per molti anni ne è stato vicerabbino capo, insegnante della scuola ebraica, punto di riferimento di più di un Bet Haknesset.
Per la prima tappa il rav aveva scelto un luogo originale. Il porticato della corte antistante alla Basilica di Sant’Ambrogio. Qui si trovano alcune lapidi incastonate nei muri di mattoni, integre o in frammenti. E a guardare attentamente, tra uno dei frammenti si scopre una menorah (candelabro a sei braccia). Spiegava allora alla collega Rossella Tercatin il rav Richetti: “Da ragazzo la storia dell’arte mi appassionava molto e per caso scoprii queste lapidi che sono chiaramente ebraiche”. Quale la loro origine? “Ai tempi dei romani, non lontano da qui, nella zona che oggi è piazza Vetra, si trovava un cimitero ebraico.- spiegava il rav – Lo so con certezza perché ne parlava un volume che ebbi modo di consultare in alcune ricerche al cimitero monumentale. Tutta questa parte della città, che oggi è centralissima, era fuori dalle mura, dove era situato anche il quartiere ebraico. Probabilmente queste lapidi venivano da lì”. Accanto alla menorah compaiono anche dei caratteri ebraici: “Una vav e una mem sofit. Cioè le ultime due lettere della parola shalom!”, spiegava con entusiasmo il rav.
“Siccome via Guastalla era inagibile, il Comitato di Liberazione nazionale aveva assegnato alla Comunità questo palazzo, che divenne il centro di tutto” spiegava il rav varcando il portone per entrare nel tipico cortile interno dei palazzi signorili milanesi. “Quella era la porta dell’ambulatorio, dove lavoravano i medici Marcello Cantoni e Szymon Opoczynski e l’infermiera Clara Pagani. Lì invece c’era la macelleria gestita dai signori Plaut, Tilo e Carlotta, entrambi scampati ai campi” diceva, riferendosi ai due ingressi sulla destra. Erano tantissimi i sopravvissuti (“profughi” come venivano definiti all’epoca) che passavano per via Unione, dove c’era un centro di raccolta e assistenza. La maggior parte arrivava in Italia per proseguire verso la futura Israele ancora sotto mandato britannico. Anche per loro, e per tutti i ragazzi che avevano bisogno di imparare un mestiere, l’Ort, organizzazione internazionale ebraica impegnata nel campo dell’educazione, aveva aperto una scuola di meccanica, che funzionò fino agli anni ’60, prima di fondersi con il liceo della Scuola ebraica. “Appena finita la guerra, il nonno si era presentato alla Comunità per mettersi a disposizione. E ce ne era bisogno. Le persone avevano esigenze spirituali, molti erano ammalatissimi e morivano, ancora di più volevano tornare alla vita. Mio nonno aveva oltre sessant’anni ma non si tirava mai indietro. Ed è incredibile pensare che nel 1946 in questo palazzo furono celebrati 366 matrimoni”. Un paio d’anni più tardi, si festeggerà lì anche l’unione dei genitori del rav, Noemi e Giorgio, che durante la guerra si era arruolato nella Brigata Cremona inquadrata nell’esercito alleato.