L’ultima intervista
“Dobbiamo recuperare
il senso di vicinanza”
Un anno fa rav Elia Richetti era praticamente solo nel Tempio di via Eupili, a Milano. Era la festa di Purim e le restrizioni anti-Covid cominciavano ad affacciarsi nelle nostre vite. “In sinagoga eravamo solo io e Daniel Schreiber. Lui aveva il computer per riprendere la lettura della Meghillat Esther. È stato stranissimo leggerla con il deserto attorno. Poi paradossalmente l’hanno seguita più persone di quante avrebbero fatto al Tempio. Collegate online c’erano infatti 400 persone. Ma io non lo sapevo ed ero comunque immerso nel totale silenzio. Una sensazione veramente stranissima”, racconta a Pagine Ebraiche.
“Ancor più difficile però è stato Pesach. Ho dovuto pregare in casa perché tutte le sinagoghe erano chiuse. Di festa solenne non poter leggere un Sefer… E poi il Seder (la cena rituale di Pesach): avevamo sempre tante persone a tavola, stavolta eravamo solo io e mia moglie”. Mesi di grande solitudine e di quotidianità stravolta in cui rav Richetti racconta di aver studiato la letteratura rabbinica più recente “che affrontava proprio il problema relativo a come comportarsi nei confronti del virus, degli ammalati, dei decessi”. Nel Talmud, sottolinea il rav, c’è già enunciato un principio fondamentale: “Di fronte a una malattia che colpisce tanta gente, il comportamento corretto e responsabile è di evitare i contatti, isolarsi e chiudersi in casa”. Un lockdown dunque. Gli interrogativi a cui cercare risposte sono stati tanti, racconta il rav, che spiega di aver riscontrato sostanzialmente due tendenze all’interno del mondo ebraico. “Il campo di quelli che hanno affrontato il problema studiando e cercando soluzioni; e il mondo di quelli che hanno cercato di vivere come se il problema non ci fosse, convinti che una prassi usuale e corretta potesse garantire l’aiuto divino. Non è certo questa la posizione della maggior parte dei rabbini che sono attivi nel campo delle comunità”.
Molti rabbanim, aggiunge, si sono impegnati in questi mesi “a sviluppare delle competenze tecniche che non avevamo per mantenere in qualche modo i rapporti con le persone. E così abbiamo scoperto un’opportunità attraverso la rete. Io stesso ho tenuto lezioni che hanno raggiunto molte più persone. Ed è un fatto positivo. Certo è anche un rischio che le persone si abituino a starsene in casa, a seguire le lezioni solo su uno schermo. Non è certo ottimale. La cosa migliore sarebbe una via di mezzo, anche perché il rapporto personale è insostituibile”.
Il rav si sofferma su quella che per lui è stata la situazione più difficile in questa pandemia: “La cosa più triste – dice – è stata non poter celebrare funerali con tanta gente; non poter fare la rechitzah (lavaggio) alle salme di persone morte per Covid. E ancora non poter assistere un morente. Tutte queste sono cose che ci porteremo dentro”. Chi ha incontrato rav Richetti sa che è una persona sempre sorridente e piena di spirito. E anche al telefono il suo umore è allegro, ma di fronte ai segni lasciati da questa pandemia la sua riflessione è malinconica.
“Purtroppo non ci ha cambiato in meglio questa crisi. Si è instaurato una specie di clima del sospetto nei confronti dell’altro, visto come il potenziale untore. E così un atteggiamento, che prima era naturale e spontaneo, di vicinanza si è andato perdendo”. A mitigare questa distanza, la comprensione reciproca tra coloro che hanno sofferto e avuto lutti a causa della malattia. “Però sempre a una certa distanza. Anche il fatto di salutarsi col gomito, che adesso è di moda, non è una cosa spontanea, non è una cosa naturale, non è come com’era stringersi la mano, guardarsi negli occhi, sorridersi e abbracciarsi”.
Il vaccino forse potrebbe riportare le lancette indietro a quella normalità fatta di contatto e gesti sinceri. Il rav è tra coloro che hanno ricevuto, al momento dell’intervista, la prima dose del vaccino.
“È una bella soddisfazione, nel senso che sento di aver fatto il passo giusto per migliorare la condizione generale della società”.
(23 marzo 2021)