L’intervista a Natan Sharansky
“Giocare a scacchi
mi ha salvato la vita”

Nel corso di questa pandemia, obbligati nelle nostre case, abbiamo riscoperto il nostro tempo. Molti hanno scelto di trascorrerlo recuperando giochi e passatempo del passato, dalle carte agli scacchi. E proprio a questi ultimi, diventati ancor più popolari grazie a una recente serie televisiva, Pagine Ebraiche ha dedicato l’ultimo dossier a cura di Ada Treves, pubblicato sul numero di aprile attualmente in distribuzione. Come spiegano i protagonisti del dossier, il legame tra ebraismo e scacchi ha radici profonde e diverse. Un concetto espresso anche da Natan Sharansky, figura tra le più significative del nostro presente, che al giornale dell’ebraismo italiano ha raccontato come gli scacchi lo abbiano aiutato a sopravvivere nei lunghi anni di prigionia in Unione Sovietica.

Alla radio l’agente del Kgb ascolta le ultime mosse della seconda epica sfida a scacchi tra Anatolij Karpov e Garri Kasparov. Alza il volume in modo che dalla sua cella d’isolamento il prigioniero Natan Sharansky possa sentire. In carcere sanno che Sharansky è un bravissimo scacchista. Anzi, le guardie pensano che sia un po’ matto perché gioca di continuo partite mentali. “Ne avrò fatte a migliaia. Mi hanno salvato dall’impazzire – racconta a Pagine Ebraiche – Soprattutto in quelle interminabili giornate di isolamento: oltre 400, passate al buio, al freddo e senza nessuno con cui parlare. Grazie agli scacchi la mia mente è rimasta allenata e salda. Sono stati la mia sopravvivenza intellettuale”. Le strategie applicate sulla scacchiera, aggiunge, lo hanno anche preparato agli innumerevoli interrogatori subiti dal Kgb nel corso di nove lunghi anni di prigionia, tra carceri e campi di lavoro sovietici. “Cercavano sempre di prendermi di sorpresa, ma io arrivavo preparato, avevo anticipato nella mia testa le loro possibili mosse”. Quando si svolge la seconda sfida tra Karpov e Kasparov, nel 1985, Sharansky sta per finire la sua interminabile detenzione. È in cella dal 1977 con l’accusa di spionaggio a favore degli americani. Mosca non ha gradito le sue campagne a difesa dei diritti umani. In particolare a favore dei refusnik, gli ebrei a cui l’Unione Sovietica impedisce di emigrare in Israele. Tra loro, lo stesso Sharansky che, spiega, da giovane immaginava di diventare un campione di scacchi non delle libertà. “Mia madre insegnò a me e mio fratello a giocare. E la scacchiera divenne ben presto il mio modo di esprimere la mia libertà. Nel gioco, la tua mente è libera di articolare ogni ragionamento. Di vagare senza paura di essere confinata. Lo racconta bene la serie La regina degli scacchi. Nell’immaginare le diverse e quasi infinite mosse, hai la possibilità di superare ogni limite, ogni barriera”. E il giovane Sharansky sa sin da giovanissimo che il suo è un paese pieno di limiti e barriere. “Quando avevo 5 anni mio padre mi prese da parte e mi disse che era morto Stalin. Mi disse che era un miracolo, che con la sua morte un’ulteriore tragedia per il popolo ebraico era stata evitata. Ma mi avvisò: una volta arrivato all’asilo, comportati come tutti gli altri. E mi ricordo che lì tutti piangevano e cantavano canzoni per l’amato Stalin. E così feci anch’io: iniziò così la mia doppia vita da sovietico, consapevole di pensare una cosa ma dirne un’altra”. Gli scacchi però rappresentano un’eccezione: qui il giovanissimo Sharansky ha piena libertà di espressione. E a 15 anni diventa piuttosto bravo, vince i tornei, batte giocatori più grandi, gioca partite contro se stesso, anche mentalmente. “Pensavo fosse un’abilità totalmente superflua e invece in prigionia si è rilevata molto utile”. Inoltre per Natan gli scacchi sono un’inconsapevole legame con l’identità ebraica, che in Unione Sovietica deve essere celata. “È una cosa che ho notato solo entrando anni dopo in una yeshiva in Israele. Quando ho visto questi studenti studiare seduti in coppie, sfidarsi sull’interpretazione dei testi, ho fatto un collegamento con gli scacchi. Loro partecipavano a una competizione millenaria che ha permesso a intere generazioni di affilare le propri menti, sviluppare logica e ragionamento. E noi in Unione Sovietica, che non sapevamo neanche cosa fossero il Talmud o la Mishnah, avevamo trovato la nostra alternativa”. Non è un caso, aggiunge l’ex dissidente, se tanti campioni di scacchi sovietici fossero all’epoca ebrei. Sarà proprio l’identità ebraica, come ricordato, a portare Sharansky lontano dagli scacchi: la presa di coscienza dei diritti violati degli ebrei e la volontà di denunciarli apertamente, lo trasformerà negli anni ‘70 e ‘80 in un eroe. Ma lo porterà anche alla lunga prigionia e a rispolverare l’utile scacchiera mentale. Qui, nell’85, posiziona le pedine di Kasparov e Karpov, grazie alle indicazioni della radio alzata dalla guardia. “Kasparov per noi rappresentava i dissidenti, mentre Karpov era l’immagine dell’establishment sovietica. Così, calcolando le mosse, fu una soddisfazione dire alla guardia: ‘Questa volta avete perso’. E sentire l’urrà di tutti i detenuti”.

Daniel Reichel, Dossier Scacchi, Pagine Ebraiche Aprile 2021