Tempi dell’uomo e della musica

La proliferazione di performance di teatro leggero, parodia e cabaret in cattività civile e militare durante il nazionalsocialismo e lo stalinismo non rispondeva soltanto alla richiesta di intrattenimento da parte della maggior parte dei civili deportati e militari internati o alla nutrita presenza, nelle loro fila, di artisti di strada, varietà e spettacolo popolare.
Uno dei capolavori della satira e della parodia d’autore della produzione musicale concentrazionaria consisteva nell’inserimento più o meno occulto nella trama della partitura di inni patriottici o nazionali; del proprio Paese per celebrarlo o di quello nemico per esorcizzarlo.
L’humus dell’ironia, della satira non è l’allegria e il buon vivere ma il dolore e la sofferenza; persino la morte, nella componente più macabra, è assimilabile alla satira, sta al suo gioco.
Per tale ragione nacque tanto cabaret e parodia in cattività; c’era humus in abbondanza.
La musica concentrazionaria è un diverso veicolo di stratificazione umana e, come nella società, riflette il proletariato, la borghesia o l’alta società di chi la scrive e la gestisce; tuttavia, essa ha componenti aggiuntive di estro, originalità, capacità di filtraggio dei tessuti musicali utilizzati prima della cattività e loro vasta capacità di riadattamento e rimescolamento alla luce di nuove soluzioni organologiche, contesti ambientali, tempistiche di produzione teatrale o musicale.
La produzione musicale in cattività funge in un certo senso da omologatore, parificatore; le differenze sociali – come il disagio umanitario della prigionia – persistono nella musica ma rimangono filigranate a favore della creatività e del comune senso di solidarietà.
Lager, Gulag e penitenziari sotto occupazione militare, alla stregua di un microcosmo nel quale interagiscono categorie sociali, emozioni e traumi soggettivi o condivisi, equilibri precari e ostilità che si annullano a vicenda, contengono e palesano tutti i linguaggi musicali possibili e immaginabili; in particolar modo, il canto corale che scaturiva spontaneamente dalla voce dei deportati nei momenti di maggior tensione o in contesti ambientali di forte pressione psicologica collettiva o dietro ordine di cantare da parte di guardie con i fucili puntati.
Il canto creava coesione, sublimava idee e capacità resistenziali e in tali frangenti aveva il raro potere di disorientare la guardia procurandone smarrimento, disagio e panico; in ciò non può non venire in mente l’immagine – talora consegnata alla cinematografia – dei pretoriani della Roma imperiale ammutoliti dinanzi al canto dei primi martiri cristiani condotti nel Colosseo o in altri luoghi dell’Impero prima di essere sbranati dalle belve feroci o morire assiderati sulla lastra di un lago ghiacciato.
Il 27 maggio 1938, prima di essere imbarcato sul treno per Dachau, il compositore ebreo austriaco Herbert Zipper (nell’immagine) intonò l’ode An die Freude dalla 9. Sinfonie op.125 di L.v. Beethoven, imitato dai suoi compagni di prigionia; la banchina della stazione di Vienna tremò sotto i loro piedi.
In quei momenti, l’utilizzo del più celebre corale improntato a valori di fratellanza e pace dei popoli nonché emblema di germanità quale può emanare dalla musica di Beethoven ha intellettualmente annichilito il Terzo Reich; nulla di più distruttivo che intonare un canto tedesco scritto da un grande tedesco in faccia a un soldato tedesco.
Nella deportazione i tempi dell’uomo e della musica coincisero, divennero un tutt’uno e, nella visione spazio-temporale di Messiaen e del suo Quatuor scritto nello Stalag VIIIA Görlitz, collassarono.
Fare musica in Ghetti, Lager e Gulag è stato qualcosa di profondamente e spontaneamente rivoluzionario; nel presente pietrificato del tempo concentrazionario, il musicista non poteva in alcun modo permettersi il lusso di “fare” memoria.
Nella massima espansione e dilatazione temporale, il musicista fu egli stesso uomo di memoria.

Francesco Lotoro

(7 aprile 2021)