La sedia vuota

Che l’Unione europea sia un organismo in difficoltà è oramai cosa evidente da molti anni. Non si tratta di fare gli uccelli del malaugurio o, peggio ancora, le Cassandre compiaciute del catastrofismo. Poiché la crisi che ha investito, da almeno una decina d’anni, questa non solo incompleta ma anche informe organizzazione, sospesa a metà tra il continuare ad essere una permanente conferenza intergovernativa rafforzata, con qualche prerogativa in più di quelle tradizionali, e il manifestarsi come un progetto del tutto incompiuto sul piano di ipotetiche funzioni federali, è destinata a colpirci ancora per i suoi effetti di lungo periodo. La vicenda della farraginosa campagna vaccinale, che interessa buona parte dei paesi dell’Unione, con le discrasie – non a caso – di quei territori che erano stati invece identificati come aree di eccellenza (la Lombardia in Italia, la Germania di Angela Merkel e così via) ne costituisce una sorta di cartina di tornasole: l’Europa unita è anche, molto spesso, un organismo burocratico, abituato a seguire procedure onerose e autoreferenziate, in omaggio ad una concezione dei rapporti politici e amministrativi che fatica a stare al passo con la velocità dei cambiamenti del nostro tempo. Nessun de profundis, beninteso, ma senz’altro la consapevolezza di un disagio crescente che trasforma i ritardi in cronici differenziali dai quali, rispetto alla radicalizzazione di certi processi collettivi, non possono che derivare crescenti incongruità e, con esse, a fronte dei declini delle vecchie virtuosità, anche e soprattutto standard decrescenti sia sul piano economico che sociale e, quindi, civile. Dell’ampiezza di una tale condizione – peraltro – se ne potrebbe avere temibile prova quando, esauritasi l’emergenza pandemica (per la quale le risposte dell’Unione sono comunque risultate sostanzialmente insufficienti se non fallaci), dovesse intervenire un processo di profonda ristrutturazione produttiva, sulla scia delle trasformazioni che il nostro tessuto economico sta già da tempo sperimentando su di sé. La mancanza di un effettivo coordinamento, di una reale armonizzazione delle politiche fiscali, di un’assenza di obiettivi condivisi, potrebbe allora rivelare il suo concreto volto, ossia quello di un progetto che lascia a sé i suoi partecipanti: per quanto il programma di aiuti e prestiti finalizzati, che porta il nome di «Next Generation UE», sia importante, non potrà competere né con gli investimenti che l’America di Joe Biden ha in animo di realizzare, ed a breve, né con le risorse di cui competitori globali quali la Cina del “comunismo capitalista” già da adesso si sono dotati, operando sull’intero spettro planetario. In buona sostanza, il Pacifico potrebbe tornare ad essere il vero centro degli interessi geopolitici, con gli Washington e Pechino come i due protagonisti di un nuovo bipolarismo imperfetto. Non a caso, le difficoltà e le incongruenze dell’Unione sono lo specchio di un più ampio processo di trasformazione che chiama in causa non solo il nostro Continente ma l’intero pianeta. Gli equilibri e gli assetti di lungo periodo che avevano caratterizzato il mondo intero dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, e che solo in parte erano risultati erosi dalla fine del bipolarismo nel 1989, ora rivelano la loro definitiva estinzione. In storia nulla è destinato a sopravvivere a sé, ovvero alla sua funzione. Quando quest’ultima termina, viene a mancare anche la ragione della sopravvivenza del soggetto che la incorpora. Questo per ribadire non solo che ciò che generiamo non è immortale ma che dopo gli equilibri e le istituzioni trascorse altre ne seguiranno. Non siamo alla fine del mondo ma, forse, del nostro mondo, ovvero del modo in cui continuiamo a concepirlo. Sta di fatto, tuttavia, che le transizioni sono sempre piene di incognite. La debolezza della democrazia, nelle sue diverse forme, soprattutto nella sua forma tanto liberale quanto sociale, è un fatto evidente. Le frizioni che si ingenerano con le evoluzioni dei mercati, quand’essi non siano sottoposti a qualche vincolo sovrano, sono non meno palesi. I modelli di democrazia con i quali ci siamo confronti, e nei quali abbiamo vissuto, costituiscono il prodotto di un’evoluzione storica che proprio dal “patto” postbellico, sottoscritto nel 1945 sulle macerie fumanti dell’Europa (e non solo di essa), ha tratto la sua forza e la sua legittimazione. Venendo meno quel patto democratico, poiché le condizioni in cui nazioni, collettività, individui si trovano comunemente ad operare sono radicalmente cambiate, anche la nozione e le pratiche politiche sono destinate a mutare. Il declino dell’Unione europea si inscrive dentro queste dinamiche, essendosi trovata, a più di cinquant’anni dalla costituzione delle Comunità europee, ad essere un soggetto senza partitura, qualcosa che avrebbe dovuto dare corpo ad un progetto condiviso che si è rivelato, alla resa dei conti, non in grado di realizzare. Era un’impresa ambiziosa ma non impossibile. L’obiettivo centrale della medesima, al netto di tante altre ragioni pur nobili, era creare le premesse di una maggiore giustizia sociale, in un continente che, proprio a causa delle iniquità, aveva dato ripetutamente fuoco alle polveri della guerra. La ricchezza economica delle nazioni che la compongono era la chiave fondamentale di un tale, possibile sviluppo. Le cose si stanno disponendo diversamente e si vedrà cosa ne potrà derivare. Rimane un problema di fondo, che rimanda anche alle ragioni di fondo di queste righe. La costruzione, sia pure complessa, di una struttura continentale federata, doveva servire non solo a garantire il benessere delle maggioranze ma anche a tutelare le specificità delle minoranze. Poiché nessun nazionalismo, per quanto possa essere bene intenzionato in tale senso, può offrire pari certezze. Per sua stessa natura, infatti, la nazione tende ad omogeneizzare: non crea solo un unico centro politico ed istituzionale, lo Stato, ma propende ad attenuare le diversità culturali e storiche di coloro che la compongono. Entro certi limiti tutto ciò non ha in sé nulla di male, poiché l’essere cittadini implica senz’altro il chiedere di venire riconosciuti come persone, con la propria specificità, ma anche l’accettare di essere leali nei confronti delle norme e delle regole che garantiscono la vita insieme. Tra di esse, la fedeltà alle istituzioni. Ma bisogna poi vedere quali siano, e cosa comportino, queste regole. Soprattutto, da chi vengano dettate e con quali obiettivi. Poiché non sono il prodotto di qualcosa di astratto ma di concreti rapporti di forza. Non sempre la legalità, infatti, corrisponde alla legittimità. È legale ciò che è conforme alle regole vigenti; è legittimo ciò che risponde ad imperativi morali non sindacabili. La questione del potere, ossia di chi ha la forza di decidere e di imporre sugli altri la propria volontà, trasformandola in norme imperative, diventa allora strategica. In una democrazia liberale e sociale i centri di potere, non a caso, sono molti. Principalmente per evitare che troppa forza si concentri in poche mani. Quando questo invece avviene, le minoranze quasi sempre sono a rischio. Non solo per capriccio del potente di turno, autocrate, despota, dittatore o capo che sia (anche il “popolo” può essere dispotico, se vogliamo ragionare in questi termini), ma per l’ossessione che si crea rispetto a chi non è omologabile agli interessi e agli obiettivi di una maggioranza che viene completamente schiacciata su un conformismo che è funzionale all’esercizio del potere medesimo. Chi non aderisce a tale principio di “fede” è da subito messo ai margini. Per non dire di peggio. La crisi dell’Unione europea, che evidentemente non è solo una questione di “tecnocrazie” e bilanci, ci impone di riflettere sulla traiettoria che andiamo assumendo. Per non uscire, invece, passo dopo passo, inconsapevolmente, da una democrazia che è tale non solo perché liberale ma anche libertaria.

Claudio Vercelli

(11 aprile 2021)