Il processo spartiacque
Sessant’anni fa, l’11 aprile 1961, di fronte a giornalisti di tutto il mondo iniziava a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann. Erano stati convocati 120 testimoni. Fu subito chiaro che si trattava di processare non il solo Eichmann, ma l’intera Shoah: il genocidio del popolo ebraico fu raccontato e rivissuto, suscitando emozioni intense nel pubblico e nei testimoni. La radio israeliana trasmise in diretta le sedute del tribunale.
Ciascuna delle sue quindici imputazioni prevedeva la pena di morte, una pena che è stata applicata nella storia di Israele soltanto a lui. Eichmann fu impiccato il 1 giugno 1962 e le sue ceneri furono sparse in mare. Numerosi intellettuali, alcuni di loro aderenti in passato al movimento pacifista Brit Shalom, e fra loro Martin Buber, chiesero che Eichmann non fosse condannato a morte, perché la sua esecuzione non potesse in nessun modo significare che il debito di sei milioni di morti era stato pagato.
Fra quanti seguivano il processo con occhi critici era un’intellettuale di grande rilievo, Hannah Arendt, inviata dal New Yorker, che più tardi avrebbe riunito le sue corrispondenze in un volume destinato a fare scalpore e ancor oggi vivo all’attenzione del mondo, La banalità del male.
Il processo ad Eichmann rappresentò un netto spartiacque nella storia di Israele e del mondo intero e diede inizio, con il rilievo dato alla figura del testimone, al lungo processo di costruzione della memoria in cui ancora siamo immersi.
Anna Foa