Montare i pezzi, e capirsi

Gli scacchi nella mia memoria hanno un doppio volto: quello dell’adolescenza e quello della maturità, con il corredo di qualche brutto sogno, ma anche di una lezione di vita importante. Il pensiero va a un simpatico professore di scuole medie. La materia che insegnava oggi non esiste più: applicazioni tecniche. Ci aveva mostrato un disegno e ci aveva detto di spendere poche lire in una vecchia bottega di ferramenta: viti con e senza alette, zincate e non, bulloni, tondini in ferro, dadi. Più facile del Lego: in pochi minuti saltava fuori la torre, il cavallo, le pedine, il re e la regina. L’alfiere era il più bello, ma il più complicato da montare. La scacchiera fabbricata in classe, un sacchetto in stoffa per serbare i pezzi. Una lezione importante, per me: attenuava il pregiudizio positivo contro gli ebrei, persistente quanto quello negativo, radicato nel mio insegnante. Tutti i campioni mondiali di scacchi sono ebrei, diceva guardando verso di me. Distratto com’ero e come sono, in classe perdevo invece sempre e regolarmente. Felice della sconfitta, perché la mia debolezza dimostrava quanto poco lontano si vada assecondando i pregiudizi (quelli di segno più o di segno meno non importa). La rivincita me la prendevo sulla terra rossa. Il tennis ha sue logiche geometriche simili agli scacchi, ma vanta pochissimi campioni ebrei.
Più indietro nel tempo il secondo ricordo e la seconda lezione di vita, più politica: un lungomare, non so quale località. La scacchiera disegnata per terra, due scatoloni per i pezzi in grande formato, due giocatori concentrati, pubblico identico a quello che osservava ogni sera sul molo i pescatori. Rodari ha una pagina bellissima sul pensionato che guarda il pescatore pescare, a me piacerebbe emularlo descrivendo la catastrofe di un Re alto come un bambino che cade rumorosamente a terra ai piedi di un bambino più alto di un Re. Profumi di estate, ricordi di una comunità scolastica in un’aula che era in ogni scuola media degli anni post-riforma una palestra di vita. Più tardi, comunque troppo presto per l’età che avevo, questi due ricordi si sono infranti nella faccia paurosa di Max von Sydow nel Settimo sigillo di Bergman (nell’immagine un passaggio del film). Un vero trauma infantile. Dico troppo presto per un bambino incontrare la Morte che muove così i pedoni e amministra le vite degli uomini. Notti insonni e ritorni dell’incubo, a ondate cicliche, negli anni adulti, dopo aver letto Nostra Signora Morte di Giorgio Voghera o la Variante di Maurensig. Da quel giorno ho chiuso con gli scacchi, anche se, dopo aver letto l’autobiografia di Vittorio Foa, senza timore di sbagliare confermo di essermi ogni giorno servito della logica del cavallo per difendermi dai miei avversari che con la loro sicumera cercavano di fregarmi con la logica della torre. E di esserci qualche volta riuscito, lo ammetto. Che Foa fosse ebreo è una pura coincidenza. Mi dispiace, ma continuo a pensare che il mio insegnante delle medie fosse bravissimo a insegnare come si assembla una scacchiera, ma si sbagliasse di grosso se pensava che gli ebrei con la mossa del barbiere fossero artefici di un complotto scolastico.
Già, perché i barbieri? E perché sempre gli ebrei, allora. Anche il nesso scacchi e letteratura ci tocca molto tangenzialmente. Il libro più bello non è opera di uno scrittore ebreo, ma cinese: Acheng, Il re degli scacchi.

Alberto Cavaglion, Dossier Scacchi, Pagine Ebraiche Aprile 2021