Strumenti contro l’antisemitismo

La Jerusalem Declaration on Antisemitism (JDA) definisce l’antisemitismo come “la discriminazione, il pregiudizio, l’ostilità o la violenza contro gli ebrei come ebrei (o contro le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche)”.
Questa definizione, avendo lo scopo di influenzare i comportamenti, dovrebbe riempire di contenuti le norme sulle discriminazioni. Essa contiene l’iterazione “in quanto” in chiave restrittiva, rafforzando la critica che la descrive come una caratterizzazione in negativo: dice ciò che non è antisemitismo anziché ciò che lo è.
La JDA non innova, ed è un peccato, ma si limita a legittimare il comportamento di chi aggira il divieto di colpire gli ebrei surrogandolo con l’antisionismo. L’ordinamento identifica, qualifica e sanziona l’aggiramento del divieto, che qui viene invece sdoganato, con un imprimatur formidabile.
Michael Walzer, che pure ha firmato la JDA (non ne capisco il come né il perché) sostiene che “è ovviamente più facile condannare gli antisemiti di destra e fingere che l’antisemitismo non esista a sinistra. … quando si tratta di dibattiti di sinistra su Israele, il problema è il sionismo, ed è di sionismo che dovremmo parlare. Per tutte le ragioni che ho fornito, ciò che c’è di sbagliato nell’antisionismo è l’antisionismo stesso. Che tu sia un antisemita, un filosemita o un semitico indifferente, questa è una pessima politica”.
La JDA introduce il concetto di ostilità nei riguardi di Israele, dopo aver tacciato di confusionaria la definizione operativa IHRA di antisemitismo, come se il Parlamento e il Consiglio europeo, che l’hanno adottata, fossero approssimativi, se non addirittura illetterati.
Tale ostilità contro Israele, secondo la JDA, “potrebbe essere l’espressione di un animus antisemita, oppure potrebbe essere una reazione ad una violazione dei diritti umani, oppure potrebbe essere l’emozione di una persona palestinese provocata dalla sua esperienza nelle mani dello Stato. In breve, sono necessari giudizio e sensibilità (judgment and sensitivity) nell’applicazione di queste linee guida alle situazioni concrete”. L’estensore, evidentemente, non aveva letto Jane Austen.
L’ostilità, nell’England and Wales Crime and Disorder Act 1998, section 28 (1) è un’aggravante di una “offence”. Nella JDA, l’ostilità viene ridimensionata due volte, la prima, come detto, si riduce a “gli ebrei in quanto ebrei”, la seconda, quando due casi su tre di ostilità verso Israele ottengono giustificazione.
Nel commento al citato Crime and Disorder Act 1998, Mark Austin Walters sostiene che, in termini di diritto penale, ciò che conta non è se l’autore del reato sia motivato da odio o fanatismo, ma semplicemente se esprime intenzionalmente e /o consapevolmente animosità contro le caratteristiche dell’identità della vittima (Conceptualizing ‘Hostility’ for Hate Crime Law: Minding ‘the Minutiae’ When Interpreting Section 28(1)(a) of the Crime and Disorder Act 1998.Oxford Journal of Legal Studies, vol. 34, no. 1, 2014, p. 50).
Walters, giustamente, asserisce che l’aggressore potrebbe essere esente da detta aggravante perché “provocato da qualche fattore situazionale privo di rapporti con l’identità di gruppo dell’offeso” (p. 64) mentre per la JDA l’ostilità avverso Israele può essere giustificata in due casi su tre. E quali giustificazioni! Una è basata sulle violazioni dei diritti umani, che chiunque può addurre (“ero indignato per come si comporta Israele”) e l’altra è addirittura cucita su misura sull’appartenenza dell’eventuale aggressore. Però non basta: si richiede a chi giudica di farlo con giudizio e sensibilità quindi, per prima volta nella storia del diritto, ci si potrebbe difendere sostenendo che chi valuta l’infrazione è un insensibile. A una prima lettura, la JDA appare un testo ingenuo per via dei suoi abbondanti contenuti metagiuridici ma, approfondendola, d’ingenuo non c’è nulla: quegli aspetti svelano delle preoccupazioni e degli obiettivi molto concreti.
Mi riservo di fare ulteriori commenti, per i quali la JDA si rivela per ciò che è: una fonte inesauribile di piste sbagliate dal punto di vista dell’analisi giuridica mentre, dal punto di vista letterario, è eccitante che spinga lo studioso a compiere a ritroso l’itinerario di Roland Barthes, approfondendo il profilo autorale anziché annullarlo.

Emanuele Calò, giurista