L’intervista a Raffaella Sadun,
economista ad Harvard: “Crisi, lezione per il futuro”
Puntare sulla parità di genere, sul senso di comunità, sulla formazione di nuovi lavoratori. Lasciare spazio ai giovani non solo nei discorsi pubblici, ma nella realtà, affidando loro responsabilità concrete. E vivendo i loro successi come delle vittorie, non come un pericolo per il proprio futuro. Per l’economista Raffaella Sadun, docente alla prestigiosa Harvard Business School, da questa crisi il nostro paese – e non solo – può trarre diversi insegnamenti. Può essere l’occasione per un cambio di marcia. Anzi deve esserlo, tenendo presente che l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo potrebbe ripresentarsi. E per allora non ci dovranno essere scuse: dovremo aver riorganizzato i nostri sistemi in modo da premiare la competenza e il talento.
Famiglia ebraico-romana con ascendenza livornese, un forte legame con il rav Elio Toaff, Sadun ha all’attivo diverse pubblicazioni su temi economici sulle principali testate internazionali.
Già segnalata tra i giovani economisti più brillanti al mondo, prima in classifica tra gli italiani, ha fatto parte del gruppo di lavoro guidato dal manager Vittorio Colao che nel 2020 ha presentato al governo 100 progetti prioritari per far ripartire il nostro paese una volta terminata l’emergenza sanitaria.
Partiamo dal suo percorso di studi e di lavoro. Come è arrivata ad insegnare Business Administration ad Harvard?
Ho studiato a Roma, liceo e università. Poi ho fatto un master in Spagna. Il dottorato a Londra, dove ho trovato un gruppo di ricerca con cui mi sono trovata benissimo. Grazie ai miei tutor, che mi hanno innanzitutto insegnato a fare ricerca e non avevano la mentalità gerarchica che abbiamo in Italia, ho iniziato ad essere mandata in giro a fare conferenze. Fino a farne una ad Harvard. Qui il controrelatore è stato molto duro, mi aveva praticamente distrutto durante la conferenza. Ho cercato di rispondere a tutto e alla fine è venuta una persona da me a dirmi: “Penso che ti troveresti bene qui con gli studenti del Master in Business Administration”. Possiamo dire che il mio ingresso ad Harvard sia stata una coincidenza, ma in realtà senza il gruppo di ricerca di Londra, che ha puntato su di me, che ha scelto di mettere davanti i giovani, non ci sarei arrivata. Ci sono posti invece dove i giovani devono stare al loro posto e aspettare di essere chiamati dall’alto.
La sensazione è che l’Italia sia tra questi. A proposito del nostro paese, lei assieme ai suoi colleghi di Harvard ha scritto lo scorso anno un articolo Lezioni dalla risposta dell’Italia al Coronavirus – in cui si evidenziavano gli errori da non commettere rispetto alla pandemia. Può riassumerlo brevemente?
Innanzitutto vorrei sottolineare che quell’articolo non era una critica all’Italia, che è stata purtroppo la prima in Occidente a subire i danni del virus. Noi lo abbiamo scritto da studiosi che guardavano dall’America la situazione, auspicando di aiutare gli altri paesi a migliorare la propria risposta sulla base dell’esperienza italiana. Purtroppo così non è andata e gli stessi errori si sono ripetuti in molti stati. Quello che abbiamo imparato è che in una pandemia non si può fare un’estrapolazione lineare dei dati, l’andamento è esponenziale. Oggi puoi stare benissimo, ma fra una settimana le cose possono essere molto diverse. Per questo il nostro invito allora era di affidarsi ai microdati: capire la situazione all’interno degli ospedali di ciascuna regione, avere numeri chiari e trasparenti sui ricoveri, sui contagi, e così via. Inoltre invitavamo ad evitare di cercare un proiettile d’argento: non c’è una leva unica da tirare per chiudere con la pandemia, ma serve muoverne diverse insieme. Credo che questi principi siano ancora validi oggi e penso spesso a quell’articolo.
Vede un cambiamento da allora nella gestione della crisi?
Adesso si percepisce di più l’idea della necessità di un coordinamento centrale, mentre da noi per molto tempo ogni regione è andata per conto proprio. Mi sembra che le cose stiano cambiando. Una crisi come quella del coronavirus si affronta solo avendo chiari i dati complessivi. Se tu hai idea di quello che succede da te, nella tua regione, ma non sai cosa accade in quella limitrofa, non riuscirai a dare una risposta pienamente efficace, perché ad esempio le persone si spostano. In genere la gestione dei dati e il loro uso rende di più se viene fatta a livello centralizzato. E per questo si parla proprio di economie di scala nella gestione dei dati. E lo stesso discorso vale per i materiali: se tu hai una visione complessiva e puoi muovere risorse da una parte all’altra in modo centralizzato non devi ogni volta stare a negoziare con ciascuna regioni per capire cosa dare, dove, da chi prendere. La pandemia ha bisogno di queste sinergie e ha bisogno di sistemi in grado di muoversi in modo veloce.
Israele da questo punto di vista è considerata un modello. Pensa si possa replicare in Italia quanto accade lì?
Non sono un’esperta del sistema sanitario israeliano, ma direi che la parte fondamentale da replicare è quella informatica che permette di poter seguire le persone nel tempo e con informazioni sul loro stato di salute sempre dettagliate, il tutto con una sanità del territorio ben organizzata. Da qui si può prendere ispirazione per avviare una riforma, certo impossibile nel breve periodo. Ma almeno saremo pronti la prossima volta perché purtroppo molti esperti si aspettano che questa non sia l’ultima crisi di questo tipo. È necessario lavorare alla creazione di banche dati interoperabili, complete, ed è una sfida molto al di là dei problemi tecnologici. Si tratta di problemi organizzativi a cui da anni si cerca di dare risposta. Speriamo che sia questa la scossa giusta.
Con il temporaneo blocco dei licenziamenti la sensazione è che la crisi sociale più profonda sia per il momento stata posticipata. Ma presto arriverà anche questa onda d’urto con l’aumento della disoccupazione: in questa situazione di precarietà per moltissime persone, una dimensione come quella della Comunità, ad esempio ebraica, può essere d’aiuto?
Secondo me ha un’importanza enorme. Prendiamo la comunità ebraica: queste forme di socialità, di rete di supporto saranno fondamentali. Viviamo un momento di grandissima incertezza. Quando si sbloccheranno i licenziamenti, bisognerà capire come aiutare molti lavoratori a cambiare occupazione oppure a usare le proprie conoscenze e competenze all’interno dello stesso settore, ma con mansioni diverse. È molto importante che in quel periodo di transizione si aiutino le persone sia dal punto di vista economico, sia psicologico. Non si tratta solo di imparare a fare cose nuove, ma anche di cambiare la propria identità. E davanti al cambiamento, avere strutture che permettano di mantenere salda la propria identità in altri aspetti della vita sarà molto importante.
Secondo una ricerca Swg gli italiani vogliono un 2021 in cui si dia pienamente spazio alle competenze, complici anche le aspettative create dal governo Draghi. Secondo lei l’Italia è pronta?
La competenza in Italia non manca assolutamente. Quello che manca è un sistema che permetta alle persone competenti di avere più di controllo e più influenza su quello che fanno. I talenti ci sono, ma spesso si sentono frustrati dal non avere la possibilità di lasciare il segno sulla realtà. E quindi torniamo da dove abbiamo iniziato: per fare in modo che le persone possano realizzare il proprio potenziale credo sia importante avere un cambio di mentalità. Faccio l’esempio universitario: se io mando avanti il mio giovane ricercatore e questa persona ha successo, devo interpretarlo come un mio successo. Invece in Italia troppo spesso viene percepito come una minaccia.
Lei ha fatto parte lo scorso anno della task force guidata da Vittorio Colao, oggi ministro per l’innovazione tecnologica. Al termine del vostro lavoro avete proposto 100 progetti per il paese. Se dovesse sceglierne uno prioritario oggi quale indicherebbe?
Non entro nei dettagli perché quei progetti erano strettamente collegati l’uno all’altro. Non credo che si possa pensare a iniziative specifiche, è necessario prendere in considerazione l’insieme. Però un punto che invece era un po’ uno dei pilastri del piano, che spero e credo che verrà rispettato, è quello della parità di genere. È uno dei temi centrali per lo sviluppo dell’economia italiana. E in questo credo moltissimo
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Aprile 2021