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Pomodori e funghi velenosi
Mi è stato chiesto di sottoscrivere la Jerusalem Declaration on Antisemitism (Jda), un documento di circa duecento studiosi e studiose che si occupano di storia dell’antisemitismo, della Shoah, degli ebrei e delle vicende mediorientali, soprattutto in rapporto a Israele. Molti amici italiani hanno firmato. Con una garbata mail ho risposto di no. Vorrei qui spiegare le ragioni del mio rifiuto, solo in parte riconducibile sia alla triste mia memoria degli appelli mediorientali d’Italia, sia alla cronica difficoltà a sottoscrivere cose che non siano state scritte da me. Il documento Jda nasce in risposta a un altro, diffuso a livello internazionale, che ugualmente propone con differente prospettiva una definizione “operativa” dell’antisemitismo.
L’uno e l’altro documento mi sembrano muovere da una alcinesca seduzione. Ricordate Alcina, la maga sdentata dell’Orlando furioso che trasforma in animali o piante gli innamorati che non le vanno più a genio? A me pare che fissare in una definizione precisa l’antisemitismo significhi essere preda di una grande ingenuità mescolata a una troppo elevata considerazione di se stessi. L’antisemitismo è come Alcina, una strega sdentata che muta i suoi connotati a seconda del momento, del paese in cui si trova, delle forze politiche che si trova davanti, della condizione giuridica in cui si trovano a operare i suoi innamorati. Come tutte le categorie storiche è sottoposta al divenire del tempo e non si presta a una delimitazione lessicale univoca. Questo è il difetto principale che io leggo nell’uno come nell’altro documento. So bene che in questa circostanza Alcina non si è smentita: la ragione del contendere è viziata dalla diversa funzione che gli estensori dei due documenti attribuiscono al valore del termine nel contesto della politica di Israele e del giudizio contrapposto che a questa politica intendono dare.
Vorrei non cadere nella trappola. Vorrei rimanere sul piano del mestiere dello storico, cioè della maggioranza dei firmatari, che per definizione dovrebbero svolgere buone ricerche e scrivere buoni libri dove ci si possa avvicinare a una definizione dell’antisemitismo, valida per un determinato periodo, personaggio, movimento politico. Non sarà mai una definizione perfetta, ma per successive approssimazioni potrà avvicinarsi al vero. Un vero relativo, beninteso. Un impegno assai più gravoso che sottoscrivere un appello.
Per puro paradosso e amore di verità aggiungerò che sarebbero preda di una seduzione altrettanto alcinesca coloro che pensassero di dare in un documento ufficiale una definizione precisa del termine opposto, cioè Ebraismo: «Il pomodoro è un frutto o una verdura?». È noto il paradosso, cui spesso mi affido, di un acuto storico ebreo inglese, Norman Solomon. Per un botanico il pomodoro è senza dubbio un frutto, per un cuoco una verdura, ma che cosa ne direbbe un pomodoro se mai gli accadesse di pensarci? Soffrirebbe probabilmente delle stesse crisi di identità che tormentano gli ebrei non appena qualcuno tenta di incasellarli come razza, gruppo etnico, religione.
Potremmo dunque estendere il paradosso di Solomon e applicarlo agli innamorati di Alcina, passando dal pomodoro alla estesa famiglia dei funghi, sottospecie funghi velenosi. Il passo è azzardato e scandaloso, forse non inutile. Soltanto a limitarci alla storia del XX secolo c’è da credere che l’antisemita non si riconoscerebbe, e forse giustamente si offenderebbe, se lo inquadrassimo nella famiglia dei finti funghi velenosi (non tutti gli antisemitismi hanno condotto ad Auschwitz) o direttamente lo infilassimo nella famiglia dell’Amanita, del Boletus Satanas o della falsa Mazza di Tamburo.
Alberto Cavaglion
(14 aprile 2021)