Israele e quel sogno da alimentare
nella vita di ogni giorno
Amanda abita a Gush Halav, un villaggio arabo israeliano che sorge a sei chilometri da Sasa, il mio kibbutz, dove vivono il 75% di cittadini cristiani e 25% musulmani. Quando aveva 18 anni è entrata a far parte del Teatro Multiculturale Arcobaleno della fondazione Beresheet LaShalom. È rimasta legata ai ragazzi e alle ragazze del gruppo con i quali ha vissuto momenti indimenticabili. Si è sposata e da qualche tempo lavora con me come segretaria della fondazione. Suo figlio Christian studia nella scuola del kibbutz e frequenta la seconda elementare. Giovedi scorso, Yom HaShoah, Amanda mi ha mandato una foto del bimbo, con una camicetta bianca e con sei calle candide tra le mani e mi ha scritto: “Ecco, il mio principino va a scuola con i fiori per ricordare la tragedia del vostro popolo”. Ho guardato e riguardato con emozione profonda quella foto che diffondeva innocenza e limpidezza. La settimana tra il giorno della Memoria della Shoah e il giorno della Memoria delle vittime di tutte le guerre d’Israele e delle azioni terroristiche sembra essere ogni anno più difficile da sostenere. I giovani israeliani cresciuti partecipando, fin dalla tenera età, a cerimonie che lasciano il cuore e la mente lacerati da immagini di volti a cui è stata rubata la vita mentre si librano nell’aria i canti più dolci e struggenti di Israele, hanno creato una corazza, un meccanismo interiore delicatissimo per non tradire le proprie emozioni. Quando ho raccontato ai miei studenti del Tel Hai College la commozione che ha suscitato in me la foto del bimbo che ha partecipato al nostro dolore ho sentito che qualcosa cambiava nel loro sguardo, che qualcosa si scioglieva. Poi il giorno prima di Yom HaZikkaron, il giorno della Memoria, Amanda mi ha raccontato con amarezza: Christian mi ha detto che non vuole andare a scuola domani. Un bambino della sua classe gli ha detto: “Tu sei arabo, devi restare a casa! Siete voi che avete ucciso tanti soldati!”.
Negli occhi della giovane mamma ferita non c’era rabbia ma un senso di impotenza. Ho telefonato immediatamente al direttore della scuola offrendo il mio aiuto per incontrare i bambini per un’attività di riconciliazione, per un incontro. È diventato questo lo scopo della mia vita: aiutare ad abbattere le barriere del pregiudizio, unire, spalancare le porte dell’incomprensione. In questa settimana ho incontrato dal vero e virtualmente classi di studenti universitari, allievi di licei italiani e bambini di seconda elementare che hanno sentito storie di collaborazione e sentimento di positività tra esseri umani diversi. Che hanno domandato se le mie storie erano vere. Forse è questo che mi dà la forza di sperare, di ricomporre i brandelli di cuore sparsi dappertutto dopo la testimonianza di un sopravvissuto allo sterminio, davanti alle immagini di una madre che continua ad aspettare il ritorno di suo figlio o di una donna, ormai nonna, che ricorda come suo padre sapeva raccontare avventure straordinarie, come conosceva il nome di ogni albero e ogni uccello e come, quando lei aveva appena cinque anni, se n’è andato, con indosso la divisa di Zahal, dandole un bacio sul capo. L’ultimo. Non possiamo rinunciare a questo sogno. Il sogno di un Paese forte delle proprie radici. David Grossman scrive dopo la perdita di suo figlio Uri nella guerra del Libano: “È difficile separare il ricordo dal dolore. È doloroso ricordare, ma è ancor più spaventoso dimenticare. E quanto sarebbe facile, in questa situazione, cedere allo sdegno, alla rabbia, alla brama di vendetta. E io so che persino nel dolore esiste il respiro, la creatività, la capacità di fare il bene. Il lutto non solo isola, ma sa anche unire e rafforzare.”
E questo, noi figli, madri e padri d’Israele, lo sappiamo bene! Lo viviamo ogni giorno!
Angelica Edna Calo Livne
(15 aprile 2021)