Marian Kaminski (1933-2021)

Cordoglio da Israele e dal mondo ebraico italiano è stato espresso alla famiglia di Marian Kaminski, recentemente scomparso all’età di 87 anni. 
Nato nel 1933 nel villaggio di Deblin, in Polonia, la sua vita, come quella di tutto l’ebraismo polacco, era stata stravolta dall’invasione nazista del 1939. Rinchiuso nel ghetto con la famiglia, sarà deportato nel 1943 insieme alla madre nel campo di lavoro di HASAG-Warta, nei pressi della città polacca di Cestochowa. Nella testimonianza rilasciata a Yad Vashem, racconterà di aver evitato per caso di essere deportato con il primo trasporto di bambini da Deblin a Cestochowa. “Dicevano che i bambini venivano mandati in campi estivi. Invece furono uccisi”, il suo racconto.
Con l’avanzata sovietica sul fronte orientale, l’undicenne Marian fu nuovamente deportato, ma questa volta in Germania Orientale. “Quando i russi si avvicinarono alla regione, nel 1944, io e mio zio Chaym fummo deportati con altri uomini dal campo di HASAG-Warta a quello Buchenwald. – la sua testimonianza – Quando sono arrivato ho scoperto che mio padre era lì ed è stato incredibile vederlo. Nel campo c’era un gruppo comunista clandestino che si occupava dei giovani e li aiutava. Mi hanno portato al kinder barak. Avevo 11 anni ma dissero che ne avevo 12. Per i tedeschi voleva dire che ero un adulto e pronto a lavorare. Fui registrato come corriere”.
Nel libro-testimonianza Il libro della Shoah: ogni bambino ha un nome (Sonda), scritto dalla figlia Sarah e da Maria Teresa Milano, Marian ricorderà alcuni passaggi della vita nel lager. “Il pane era il bene più prezioso di Buchenwald. – il suo racconto – La gente si ammazzava per il pane, se lo rubavano l’un l’altro. Ogni mattina si usciva dalla baracca per avere nella gavetta un po’ di zuppa acquosa, una razione di pane e del caffè. Accanto all’entrata si accumulavano i morti, quelli deceduti lungo la notte. Non mi faceva nessuna impressione, era parte del quotidiano. Io dovevo stare ore e ore seduto sul pane e lo facevo, ma un giorno papà tornò e sotto il mio sedere non c’era nulla. Le presi di santa ragione. Gli altri ragazzi andavano a chiedere cibo nelle baracche dei prigionieri americani e inglesi, che ricevevano pacchi da casa. Papà mi ordinò di andare a implorare il cibo ma io ero timido e non volevo. Siccome non funzionava con le buone, alle baracche dei francesi ci andai con le cattive”.
Nell’aprile del 1945 i nazisti costrinsero padre e figlio a partecipare a una marcia della morte, ma a causa dei bombardamenti degli alleati, le guardie tedesche abbandonarono i prigionieri, che tornarono indietro al campo.

Buchenwald fu ufficialmente liberata l’11 aprile 1945 dai soldati americani. Tra i 21mila prigionieri, 904 erano bambini e adolescenti. Tra questi, Marian Kaminski – nell’immagine in prima fila, secondo da destra, con una smorfia sul volto mentre esce dal campo – e il futuro rabbino capo d’Israele Yisrael Meir Lau.
“Dopo la liberazione gli americani portarono dei civili tedeschi al campo per mostrare loro cosa ci era stato fatto. A differenza dei prigionieri adulti, io conoscevo tutte le diverse aree del campo perché, come bambino, potevo entrare e uscire da tutte le sezioni, e diventai una sorta di guida autoproclamata per i soldati americani. – si legge sempre nella testimonianza a Yad Vashem – Incontrai un rabbino militare americano che si offrì di portarmi negli Stati Uniti, ma io risposi che volevo andare con mio padre. Volevamo disperatamente tornare a Deblin, in Polonia, per trovare mia madre e gli altri nostri parenti”.
Padre, madre e figlio, assieme a pochi altri parenti sopravvissuti, si riuniranno effettivamente a Deblin. “Non rimanemmo a lungo. – ricorderà Marian – Un ufficiale aveva consigliato a mio padre di andarsene, spiegando di aver sentito che gli ebrei lì venivano uccisi”. La famiglia si ricostruì una vita a Dzierżoniów, nella Bassa Slesia. Qui Marian conoscerà la sua futura moglie Elizabet (Ela).
Nel 1957, con un percorso di studi universitari praticamente alla fine e con una figlia in arrivo, Marian ed Elizabet decidono di lasciare la Polonia comunista. Sono anni in cui nel paese l’atmosfera antisemita è molto pesante. Fare l’aliyah in Israele, è un’opportunità. E così la famiglia si trasferisce, passando dall’esperienza dissestata in una ma’abara (i campi profughi allestiti nei primi anni d’Israele) agli studi al politecnico di Haifa di Marian, quelli in biologia di Ela, alla costruzione di nucleo familiare con le figlie Sarah e Neta.
A loro, al collega Daniel Reichel e all’intera famiglia, la vicinanza della redazione in questo momento di lutto.