Oltremare
L’amalgama d’Israele

Se non si fosse notato, il paese è piccolo, e capita di finire in altre città anche non vicinissime a fare spese, soprattutto quando le spese non sono quelle di tutti i giorni. Di recente, per esempio, sono finita prima a Or Yehuda e poi a Natanya, nel primo caso in sopralluogo per sostituire la macchina del caffè che si sta autodistruggendo e ogni settimana espelle pezzi che si suppone dovrebbero invece starci dentro, e nel secondo per una aggiunta al barbecue, sottoutilizzato a dir poco, che permette di fare la pizza come nel forno a legna. Il comune denominatore delle due ridenti cittadine, oltre al fatto di essere tecnicamente periferia dell’impero (ove l’impero ha sede in Tel Aviv), è di ospitare ristoranti e negozi tripolini, noti o meno noti, che forniscono cous cous e dolciumi tradizionali a tutti quelli che sanno chiedere la cosa giusta con il tono giusto e, possibilmente, in quantitativi da caserma.
Fino ad oggi gli israeliani di origine tripolina, in maggioranza arrivati qui intorno al 1948, se hanno una certa età parlano un buon italiano e sono felicissimi di usarlo, e questo vale di certo anche per i ristoratori e negozianti; solo che se si trovano davanti una come me, troppo alta e troppo poco scura di pelle e di capelli, non sanno dove collocare queste anomalie cromatiche e strutturali e con un perfetto corto circuito logico scartano la possibilità che io possa conoscere (parecchio bene a dire il vero) i loro prodotti, e decidono che devo essere una specie di strana turista che per qualche motivo sa anche l’ebraico, e come turista cominciano a trattarmi. Conseguenze: se ordino un piatto di cous cous, poi devo specificare con estrema chiarezza che sì, lo voglio il piccante rosso, quello che fa fumare le orecchie anche a un manovale del porto, e lo so mangiare e no, non mi dovranno portare d’urgenza al Laniado (l’ospedale di zona). Oppure, se ordino 10 pezzi al negozietto dei biscotti tripolini, quello che al venerdì produce un numero finito di amambar e quando li ha venduti tutti chiude e va a casa, il proprietario si sente in dovere di spiegarmi che sono biscotti di mandorle, proprio solo mandorle, e vaglielo a spiegare che gli stessi identici biscotti si fanno anche a Venezia e ne mangio probabilmente da prima di avere avuto i denti. Niente, lui mi deve spiegare. Per lui sono forestiera. L’ultima volta devo aver fatto un’espressione un po’ così, e ho pensato che avesse capito che non ero venuta a comperare qualcosa di esotico o stravagante, ma cibi che conosco e amo da sempre, e lui – gentilissimo – al momento di farmi il conto mi ha aggiunto due pani, che ha chiamato “pani casalinghi’. Solo arrivata a casa ho visto che si trattava di bolli (o buli), gli stessi pani dolci con uvette e a volte finocchietto che da noi si fanno per Rosh HaShana e Kippur. Morale, se mi avesse detto “signora, oggi abbiamo anche il bulo” probabilmente lo avrei comperato. Ma dando per scontato che io non sapessi cos’era, ha fatto un bel gesto lo stesso. Quando il melting pot in cui viviamo sarà diventato l’amalgama di “ebrei-e-basta” cui aspiravano i fondatori dello stato, rischieremo di aver perso per la strada questi piccoli cristalli di tradizione (non solo culinaria): personalmente, sono felice di vivere ancora in una Israele non del tutto amalgamata.

Daniela Fubini