Talelei razon

Non sono un critico letterario, e tanto meno in campo di poesia, anche se, in quanto figlio e fratello di due poeti, sono sempre cresciuto e vissuto tra poesie di ogni genere. Ma sento di dovere formulare alcune considerazioni sull’ultimo libro di versi di Ariel Viterbo (nato a Padova, e ora residente a Gerusalemme), in quanto la sua lettura mi ha colpito, al di là del pregio letterario, anche per quelli che mi sembrano un approccio innovativo e anche un notevole coraggio nell’affrontare temi forti e difficili, quali i legami tra le generazioni, la solitudine, l’invecchiamento, il senso della paternità e della figliolanza, la preghiera e il rapporto tra l’uomo e l’Altissimo.
Il titolo della silloge, Talelei razon (Rugiade propizie) (ed. CLUEP), è tratto dalle parole con cui gli ebrei invocano, nei mesi estivi, la benedizione divina sui campi e sulla vita: “Benedici, Signore nostro, ogni nostra opera e benedici i nostri anni con rugiade propizie”. Parole di preghiera, dunque, di invocazione di grazia, di aiuto. E la prima parte della raccolta (Shirat rash, “poesia del povero”, espressione tratta da un canto liturgico sabbatico), come nota, nella sua prefazione, Michela Beatrice Ferri, “è fondamentalmente preghiera: preghiera umana, che sale da una voglia di spiegare la propria condizione qui, ora”. Un appello, quindi, che non è solo invocazione di aiuto, di soccorso, ma anche, o soprattutto, ricerca di una interlocuzione, di un dialogo, nel quale l’uomo affronta il Signore in un confronto difficile e doloroso, dall’esito incerto, come quello vissuto da Giacobbe, nella lotta con l’angelo, sul guado di Panuel. Ma se non è nuova, nella letteratura biblica – pensiamo, oltre alla Genesi, a Giobbe, o al Qohelet -, l’idea di una rappresentazione del rapporto tra l’uomo e il Creatore in chiave di conflitto, o di abbandono, occorreva un grande coraggio per raffigurare tale relazione non come un aiuto prestato dall’alto alla creatura umana, ma come il contrario: è quanto si ricava dalla dolorosa, toccante lirica intitolata Onnipotente: Persino Tu/ sarai stanco/ di melodie/ innalzate,/ di inchini riverenti/ di lenti/ dondolii./ Ascoltare/ tutto il dolore/ del mondo/ e non poter/ salvare nessuno. O ancora, in alcuni versi della poesia Timida preghiera: E, dimmi, da chi vai a piangere/ quando ti senti davvero solo/ e nessun coro di angeli/ può rincuorarTi,/ quando le nostre preghiere/ si fermano, timide,/ a metà del cielo?
L’idea dello Tzim-tzùm Adonai, la “ritirata del Signore”, com’è noto, offre una interpretazione della sofferenza dell’uomo come conseguenza del suo essere rimasto orfano, a seguito dell’allontanamento del suo Signore. Viterbo immagina che questo lutto, questa solitudine, pervadano non solo la terra, ma anche il cielo. Versi intrisi di tristezza, certamente, ma dai quali, a mio avviso, non è esclusa la speranza, dal momento che pongono al primo posto, come valore fondamentale dell’essenza umana, quello dell’empatia, dello scambio, della partecipazione. Le parole del libro di Giobbe, “l’umo nasce per il dolore come l’uccello per il volo”, si dilatano, nella visione di Viterbo, addirittura al di là della stessa condizione umana. Ma, con il dolore, si espandono anche la compassione, la condivisione, la pietà.
E lo stesso coraggio che segna la prima parte della silloge si ritrova anche nella seconda, intitolata Latte di padre. Il rapporto padre-figlio, così come l’avvicendarsi delle generazioni, il passare del tempo, l’inevitabile decadenza fisica, l’avanzare della solitudine, vengono rappresentati in termini crudi, che rifuggono da facili consolazioni, o illusioni. Si legga, per esempio, Piume bagnate: Con le piume bagnate/ e il cappello sgualcito/ racconto segreti/ alle mie cravatte,/ rassegnate ormai/ a non vedere più/ il giro di un colletto./ Dormo troppo,/ salto il letto sfatto/ per non cadere,/ affido alla debolezza/ tutto quello che/ non voglio sapere./ E non ho più verbo/ che si coniughi/ al plurale.
Ma quella di Viterbo non è una poesia triste, in quanto all’uomo – anche quando solo, abbandonato, piegato, addolorato – resta, come arma di difesa, la comunicazione. E da questa consapevolezza emerge un valore direi sacro della parola, alla quale è affidato il compito di realizzare l’irrinunciabile funzione dell’uomo, che è quella della testimonianza, e del messaggio. Perciò, nella scrittura, ogni minimo carattere ha una sua importanza, una sua missione da svolgere. È quanto si legge nella lirica Il senso delle virgole: …ogni lettera costa/ e ogni virgola ha un senso/ e ogni lettore è una sfida. Versi che aiutano, a mio avviso, a meglio intendere il senso del millenario obbligo di non omettere mai neanche un singolo carattere della Torah. Un imperativo che, al di là dello zelo religioso, si erge come monito a custodire la sacralità della parola, unica ancora, e vela, in grado di salvare l’uomo dall’insignificanza.

Francesco Lucrezi

(28 aprile 2021)