Machshevet Israel
La poesia di Amichai

Confesso di non comprare quasi mai libri di poesia (quando invece andrebbero comprati, ché i poeti vanno incoraggiati e tale mercato sostenuto). Ma davanti alla riedizione dell’antologia di Yehuda Amichai – Poesie, edizioni Crocetti/Feltrinelli, a cura di Ariel Rathaus, apparsa la prima volta ventotto anni fa – non ho resistito, non ho fatto cioè resistenza al mio bisogno di poesia, di poesia vera, di poesia ebraica e non solo di “poesia in ebraico”, che è un concentrato, meglio, un precipitato di sentimento e pensiero, di ferite e di balsami, di memoria striata di presente, di sudore misto a sogno, di Gerusalemme e di mondo. Amo Amichai: è il Qallir, anzi lo Yehuda HaLevi del Novecento; ha scritto un canzoniere sionista non guardando a Sion dall’esilio ma vivendoci, in Sion, e filtrandone la storia con il filtro dell’hayom, l’oggi, di chi la storia la fa, non solo la racconta. Ecco perché in ogni verso e in ogni metafora di Amichai grondano la pena e la felicità, facendo la spola senza vergogna tra eros, pubblico e privato, e thanatos, anch’esso pubblico e privato, tra il solletico degli amanti e il sudicio pus che vivendo produciamo. L’immagine del pus è sua, e Amichai le contrappone solo la poesia, in quanto tale, un salvagente gettato a chi è esausto, stanco di nuotare, spesso tentato di dire basta. Ripeto, la sua non è solo poesia in ebraico, è poesia ebraica.
Una parola su Ariel Rathaus. Tradurre poesia è fare poesia. Leggere poesia in traduzione significa riconoscersi non solo nel poeta ma anche (soprattutto?) nel traduttore. Chi più di Rathaus va onorato in questa impresa di trasporre la poesia in ebraico nel nostro idioma? Come non ricordare la raccolta di poeti israeliani per Einaudi del 2007? E come tacere il suo percorso inverso, l’offrire in ebraico i nostri giganti letterari e filosofici, da Boccaccio a Gianbattista Vico, da Galilei a Calvino e Primo Levi? Se esistesse un Oscar alla carriera traduttoria, lo meriterebbe! Ciò riconosciuto, torniamo ad Amichai, per capire il quale occorre forse metterlo in controluce, sullo sfondo di un Bialik. Haim Nachman Bialik è un grande “poeta ebreo”: scrive in ebraico e di cose ebraiche ma l’atmosfera, il cielo che la sua parola squarcia resta quello diasporico, dell’anima in esilio; la sua voce vibra dell’alito profetico di un Geremia. Amichai è invece “poeta israeliano”, è un Isaia che parla dalla polvere del Paese, dall’interno del vortice quotidiano, dai rumori surreali delle armi dei soldati come dal silenzio delle vedove, dagli sguardi perduti degli orfani. Amichai ha scritto un immenso Yom hazikharon, monumento imperituro in versi alla memoria dei giovani che hanno dato la vita per lo stato di Israele, per la società israeliana, per la nuova identità degli ebrei del XXI secolo. I suoi “Lamenti per i morti in guerra” sono uno zikharon di tersissima poesia e quest’antologia, per quanto incompleta e frammentaria, o forse proprio per ciò, tradisce e consegna il dolore e la speranza in un distillato di rara purezza e di inquietante verità (si può chiedere alla poesia qualcosa di più, della verità e della purezza?).
Qualche frammento: “Anniversario. Amaro sale vestito/ con un abito a fiori di bambina./ Corde tese lungo la via/ per il corteo comune dei vivi e dei morti./ Bambini che camminano a un passo di lutto sconosciuto/ come in mezzo a schegge di vetro”. Possiamo non veder noi stessi in quei bambini, che si accalcano ai margini della strada, a un tempo meri testimoni e ignari destinatari di quel lutto? Come non toccare il senso di quelle schegge di vetro, di cui è selciata la via? “Oh mondo dolce come pane inzuppato/ nel latte dolce per il Dio terribile/ e senza denti: ‘ma in tutto ciò si cela/ una grande felicità’”. Non è, quella di Amichai, poesia teologica, ma Dio è parte del destino di questa terra, della gente che la abita, della promessa fatta ad Abramo… e nei versi di questo ‘poeta nazionale’ ci sono tutti: Abramo e Isacco, Giacobbe e Davide, e persino il montone impigliato con le corna nel cespuglio, che pur estraneo paga “gli intrighi degli altri”. Norà ve-ghibbur, dice l’Amidà; terribile ma senza denti invece diventa in Amichai il divino, dal quale eros e thanatos vengono a noi sotto forma di amore e dolore, di passione e tristezza, di gelosia e ricordo. La grandezza di questa poesia sta nel sorprenderci, nello sparigliare le aspettative, nel confonderci tra realtà e sogno, tra echi di storia e sospiri d’intimità. Possiamo non restare colpiti dalla sua nostalgia per una Gerusalemme divisa, pre ’67, immaginata come una tacita amante, più fascinosa “con la sua dolorosa dolcezza” della “matrona chiassosa e tutt’intera” che è diventata? Come non pensare, davanti agli etimi dei nomi ebraici portati dell’esilio – dall’Austria, dalla Germania (Amichai è pur nato a Würzburg) – in terra di Israele, nomi che disvelano “metalli, cavalieri diventati pietra, e rose in abbondanza/ profumi svaporati, gemme, molto rosso/ lavori manuali che non sono più al mondo/ (e neanche le mani)”… All’improvviso l’orizzonte della storia pare avvicinarsi, restringersi, tzimtzumare in un grumo di sangue e di anima unificati solo da qualche fioca domanda: “Che facciamo, tornando in questo luogo con quel dolore? (…) Che facciamo delle anime di nebbia, dei nomi,/ degli occhi di selva, dei nostri figli leggiadri,/ del nostro rapido sangue?/ Il sangue sparso non è radici/ ma è la cosa più vicina alle radici/ che abbiano gli uomini”.

Massimo Giuliani, Università di Trento

(29 aprile 2021)