Il terrorismo ci riguarda
Sono particolarmente colpito dalla lettura della rassegna stampa del nostro notiziario Moked di oggi 29 aprile 2021. I quotidiani sono travolti in tutte le prime pagine da riflessioni sul terrorismo degli anni ’70 e ’80. Tuttavia, anche se nella “Prima pagina” il tema viene offerto alla nostra attenzione, la rassegna stampa che evidentemente è impostata sulla base di parole chiave di argomento ebraico, religioso o legato a Israele e al Medio Oriente, non offre alla lettura online gli articoli dedicati all’arresto dei sette ex terroristi in Francia. Capisco che gli automatismi della tecnologia fanno a volte brutti scherzi, ma io credo che sia doveroso riflettere sul tema anche su queste pagine.
Il terrorismo, la violenza politica di quella stagione dell’Italia repubblicana, ci riguarda sia come riflessione storica, sia per aiutarci a comprendere il presente. I giovani ebrei italiani erano coinvolti e travolti dal clima che si respirava all’epoca. Chi ebbe la ventura di vivere quell’esperienza ricorda bene la pressione di quei giorni. Rapimenti, attentati, omicidi e un travolgente dibattito mediatico imponevano a tutti una riflessione e in qualche modo una scelta. Al netto di quel che si muoveva nell’oscurità (sono noti oggi, ma erano meno chiari allora i contatti e le collaborazioni in termini di traffico d’armi, di formazione militare e di condivisioni di obiettivi fra le fazioni del terrorismo europeo e l’OLP di Yasser Arafat), la giovane generazione di ebrei che allora frequentava scuole e università era parte integrante di quel clima e condivideva un dibattito che non si limitava alle occasioni assembleari, ma attraversava i rapporti interpersonali e entrava nelle famiglie. L’aspirazione delle frange terroristiche di interpretarsi come la nuova resistenza antifascista che legittimava azioni violente contro uno Stato borghese letto come inemendabile e repressivo (“lo stato si abbatte e non si cambia” era uno degli slogan) non poteva non interessare la minoranza ebraica, che sulla storia della militanza antifascista e della lotta partigiana aveva fondato le basi del ritorno alla vita dopo le persecuzioni e le deportazioni. Sfogliando le pagine di “Ha Tikwà” (lo potete consultare sulla Digital Library della Fondazione CDEC), il periodico della Federazione dei giovani ebrei d’Italia, ben si leggono queste tensioni. L’impressione di vivere una vera e propria guerra civile era in effetti forte. Il ferimento di un giovane studente all’università di Roma da parte di gruppi di fascisti organizzati spingeva ad esempio un giovane ebreo romano a scrivere un pubblico appello di militanza e di coinvolgimento: “(…) noi siamo giovani che combattono la violenza, e dovremmo combatterla uniti agli altri giovani che lottano contro ogni tentativo reazionario e fascista” (D.F., Ha Tikwà, a. XXIX n. 1, Marzo 1977). Il 21 maggio dell’anno successivo, a pochi giorni dal rapimento e assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, la FGEI coglieva l’urgenza del momento organizzando un dibattito a Torino che vide la partecipazione figure di assoluta preminenza. Con Norberto Bobbio si introdusse il tema cruciale dello Stato democratico, delle sue istituzioni e della necessità di discutere le dinamiche che le azioni terroristiche mettevano in gioco nel loro attacco agli equilibri della convivenza civile. Un dibattito animato poi da interventi di Guido Fubini, Enrico Finzi, Cesare Cases e Alexander Langer che con schiettezza si confrontavano in un momento di oggettivo disorientamento collettivo che coinvolgeva nel profondo anche la vita delle comunità ebraiche (Ha Tikwà, a. XXX n.2, Luglio 1978).
Chi vive oggi, da giovane, la realtà contemporanea, difficilmente conosce gli avvenimenti di quegli anni e nella lettura dei quotidiani di oggi non riuscirà a cogliere le sfumature di un dibattito che è ancora carne viva per la generazione dei genitori. Questo è sbagliato. Non abbiamo saputo, credo, raccontare con la dovuta attenzione, restituire l’atmosfera e le emergenze di quel tempo, ragionare sulla devastazione che comporta l’uso della violenza nella dialettica politica. Il non averlo fatto per tempo, comporta oggi una debolezza oggettiva nel far comprendere la pericolosità effettiva e urgente della lotta al discorso d’odio, il cosiddetto hate speech, che è premessa necessaria e sufficiente a scatenare violenze fisiche che una volta innescate sono assai difficili da controllare. Quando ci interroghiamo attorno alla necessità di “fare memoria” ricordiamoci anche di quegli anni, di quel periodo della nostra storia. Ragioniamoci insieme, ricostruiamo le dinamiche storiche, riflettiamo assieme ai nostri figli sul senso di una Giustizia che persegue e colpisce oggi persone condannate per reati di sangue terribili commessi decenni orsono e sommersi nel fiume carsico della nostra coscienza e conoscenza.
Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC
(30 aprile 2021)