Sfere e bolle
Probabilmente aveva ragione Samuel Phillips Huntington, il politologo americano che nell’oramai lontano 1993, dinanzi allo sbriciolamento definitivo del sistema bipolare, che aveva retto le sorti del mondo dal secondo dopoguerra in poi, era andato preconizzando “The Clash of Civilizations?” (“Lo scontro di civiltà?”, beninteso proprio con il punto interrogativo). L’ipotesi, in sé molto accattivante -contenuta in un robusto articolo pubblicato sul periodico Foreign Affairs – era che alla fine del bipolarismo sarebbe subentrata un’epoca di tensioni non più di ordine strettamente politico-ideologico – come invece era accaduto per tutto il Ventesimo secolo – bensì basate su differenze di ordine culturale. In quanto tali, legate alle impronte e ai calchi delle diverse civilizzazioni mondiali. A tale riguardo, l’autore identificava otto civiltà coesistenti sulla terra: quella occidentale (euro-statunitense), quella latinoamericana, quella africana, quella islamica, l’indù, l’ortodossa, la giapponese e quella cinese. In altre parole, a costituire l’arena degli scontri a venire non sarebbero più state le singole nazioni, quand’anche alleate tra di loro, ma le concezioni mentali e le condotte diffuse, che da esse derivavano, in specifiche aree continentali o sub-continentali, come tali caratterizzate da una sostanziale omogeneità di pensieri e valori. L’Occidente, secondo questa ipotesi, non avvedendosi di una tale trasformazione rischiava di subire la crescente egemonia di nuovi soggetti tendenzialmente imperiali. Nel dibattito italiano ed europeo, la minaccia più concreta era stata ravvisata da subito nelle società islamiche. Ma per Huntington il vero orizzonte problematico era costituito dalla Cina. Come in tutte le generalizzazioni, alla suggestività dell’ipotesi si accompagnava anche una certa approssimazione. Dall’articolo era quindi derivato un libro, «The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order» («Lo scontro delle civiltà e la nuova costruzione dell’ordine mondiale»), pubblicato nel 1996. Nel loro complesso, le ipotesi dello studioso dovevano rispondere criticamente alle asserzioni di un suo collega, Francis Fukuyama, che quattro anni prima, con un altro volume, «The End of History and the Last Man», aveva invece ipotizzato che la caduta del muro di Berlino e l’avanzare di una globalizzazione a matrice democratica costituissero le premesse per l’affermazione definitiva del modello di organizzazione politica liberale. Per Fukuyama, infatti, la vera egemonia planetaria era quella esercita dal sistema mercatista occidentale e dall’impianto di valori che da esso derivavano. Nei fatti, al netto della semplificazioni di merito, si può oggi dare un po’ di ragione a Huntington. Nell’ultimo decennio è infatti divenuto evidente il fatto che il confronto sino-americana sia al centro dei conflitti di egemonia, nei mercati così come nei modelli politici di riferimento. La pandemia non ha fatto altro che accentuare una divaricazione che si fonda sulla contrapposizione crescente. Non si tratta della riedizione della vecchia Guerra fredda. Più che a conflitti armati epocali, come fino alla fine degli anni Ottanta si era temuto, quello che sta invece subentrando è una feroce competizione sulla digitalizzazione, sul controllo dei Big Data, sulle tecnologie civili e dual-use. Una sorta di guerra commerciale permanente, dove si fondono motivazioni di ordine militare, economico, sociale, politico e culturale; una guerra, quindi, fondata sul “geo-diritto”, la sfera territoriale (ma anche virtuale) di natura giuridica e tecnologica sulla quale esercitare la propria egemonia attraverso il ricorso a sanzioni, boicottaggi, all’uso politico delle organizzazioni internazionali, al controllo degli investimenti esteri, all’estensione delle aree di influenza e di dipendenza. In questo novero, una priorità nello specifico sarà sempre più rilevante nello stabilire le condotte degli attori presenti sullo scenario mondiale, ossia il campo della transizione ecologica. Cina e Stati Uniti sono i due paesi più inquinanti al mondo e, al medesimo tempo, quelli che meglio potrebbero volgere a proprio beneficio processi di radicale riconversione produttiva. Ne hanno le risorse, il know-how, la capacità operativa e lo sguardo strategico. La cronaca di questi ultimi mesi lo testimonia: a settembre dello scorso anno la Cina aveva già annunciato l’obiettivo di una neutralità climatica da raggiungere per il 2060. A febbraio 2021, ha quindi lanciato il suo mercato del carbonio per regolare le emissioni. Il 22 aprile, gli Stati Uniti hanno risposto: in pieno summit internazionale sul clima, peraltro fortemente voluto da, presidente Joe Biden, quest’ultimo ha proclamato l’obiettivo, entro non più di dieci anni, della riduzione delle emissioni di gas serra del 50-52% rispetto ai valori del 2005. Drastico cambio di direzione rispetto all’amministrazione Trump, che si era altrimenti sganciata dall’accordo di Parigi, invece subito riconfermato dopo l’addio del tycoon dalla Casa Bianca. Biden aveva già orientato la sua campagna elettorale per la presidenza presentando l’incombente cambiamento climatico al pari di una «minaccia esistenziale». Ad oggi, la sfida più grande, per garantire stabilità alle politiche americane sul lungo periodo, resta quella di convincere i repubblicani, in quanto la questione climatica continua ad essere un tema profondamente divisivo. L’Europa, in questo gigantesco confronto, rischia a sua volta di presentarsi con il fiato corto. Pur avendo opzionato in agenda la riduzione delle emissioni (meno 55% entro il 2030) e il Green Deal, è incapace di cogliere la natura geopolitica della sfida climatica. In altre parole, continuare a professare la necessità di una “svolta ecologica” essenzialmente come una manifestazione di volontà da attribuire ai cittadini e alla sovranità delle singole nazioni, non riesce a restituire il quadro e le dimensioni dei processi a venire. Non è infatti solo un tema di politiche interne agli Stati ma una questione di politiche internazionali. Non basta garantirsi una qualche stabilità, tra cui la neutralità carbonica, sul territorio continentale. La vera partita, per intendersi, si svolge laddove sono state esternalizzate le produzioni industriali più inquinanti, quindi a partire dalla Cina e dall’India. Lì c’è un fuoco di problemi ma anche di rinnovata potenza. La “guerra fredda del clima”, non a caso, si interconnette immediatamente ai temi della sovranità nazionale e degli indirizzi di fondo nella produzione di ricchezza collettiva. Poiché il clima sta diventando la questione geopolitica centrale: dalla competizione per le risorse energetiche alla sicurezza nazionale, passando per la politica industriale, i flussi migratori e l’organizzazione sociale, la questione climatica sta al cuore dei rapporti di forza internazionali. Per non parlare del vantaggio competitivo di cui godranno le economie che si saranno posizionate per tempo sul mercato delle tecnologie a basso impatto ambientale, vera e proprio Eldorado per del XXI secolo. La Cina e gli Stati Uniti lo hanno capito bene. L’Europa, invece, arranca, facendosi schermo di un’impostazione vecchia, quella di natura giuridico-morale, affidandosi soprattutto alle negoziazioni in sede di Nazioni Unite (quasi tutte puntualmente disattese nei loro obiettivi; basti pensare che in tre decenni di diplomazia climatica, il livello di emissioni di gas serra è aumentato di oltre il 60%). L’evoluzione climatica, parte integrante dei meccanismi egemonici a venire, richiede un franco realismo: la questione non è solo quella di salvare la biodiversità ma di fuoriuscire da una sterile contraddizione tra egoismi dei paesi a sviluppo avanzato e prediche sul bene comune globale, confidando magari che le nazioni meno ricche non si mettano a produrre e a consumare al pari di quelle più agiate. Il conflitto, peraltro, è presente all’interno delle stesse società nazionali, laddove coesistono, al medesimo tempo e negli stessi luoghi, condotte dissipative con atteggiamenti maggiormente virtuosi e rispettosi. Il tema del clima è quindi parte fondamentale di una strategia geopolitica la quale, nel suo insieme, rimanda al nesso tra territori, evoluzione socioculturale, modelli economici ed egemonie politiche. Resta comunque aperta una questione fondamentale: per quanto sia verde, quanto è sostenibile l’obiettivo della crescita economica che, per ragioni ovvie, continua a guidare la politica di grandi e piccole potenze? Rispetto alla Cina, ad esempio, non è ancora chiaro come farà a conciliare le sue promesse ambientaliste con le aspettative di una popolazione che ha vissuto un trentennio di tassi di crescita mirabolanti, insieme all’uscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone. Si fa presto a dire che l’ecologia è prioritaria; alla fine bisogna anche fare i conti con la gigantesca domanda di benessere che lo sviluppo capitalistico ha ingenerato, per non parlare di alcuni valori fondamentali – dalle libertà individuali alla giustizia sociale – che non sarà facile garantire se verranno meno le attuali condizioni economiche. Anche in questo caso, a meno che non si voglia fare la parte dell’impiccato che cerca di salvare se stesso legandosi la corda al proprio collo, continuare a vagheggiare di improbabili «nuovi modelli di sviluppo» o di insostenibili «decrescite felici» (quest’ultimo, un vero e proprio ossimoro) è non solo improduttivo ma irrealistico. Il problema non è abbandonarsi al miraggio di inesistenti orizzonti ma di capire, con ciò che già si dispone, quale siano i percorsi fattibili e verso quali mete. Sapendo che il tema del clima, così come degli assetti ecologici, sarà sempre di più un’ineludibile questione di potere internazionale. Che piaccia o meno.
Claudio Vercelli