Il contagio del ricordo

Ci dicono ‘La vostra memoria ci schiaccia.’ ‘Sono passati ormai settant’anni.’ Noi cerchiamo di frenare il ricordo, ma non funziona. Pensiamo che ci voglia tempo, forse qualche generazione. Solo allora, quando non ci saranno più i figli, e i figli dei figli, si potrà forse distanziare il ricordo e lenire il dolore della storia. Una fine allo strazio la si deve pur trovare prima o poi. Non si può continuare a vivere a ferita aperta.
Poi, arriva il 25 aprile, e tua figlia decide di uscire di casa in tuta da lavoro con stracci e due confezioni di Sidol per andare a lucidare le pietre d’inciampo. Noi due la seguiamo, per il solo fatto che non ne possiamo fare a meno, come automi. E lei gira per la città e si china a lucidare decine di piastrelle, e ad ogni piastrella nomi e date e sempre la stessa destinazione finale, ‘Auschwitz’. Noi la guardiamo da sopra mentre lei si incurva e strofina fino a che la pietra non riflette tutta la luce possibile, concentrata sulla sua missione, senza accorgersi del mondo intorno a lei. Il luccichio abbagliante della pietra come vana compensazione per le tenebre che nasconde.
La gente passa e getta uno sguardo fugace. Qualcuno si ferma a complimentarsi e scambia poche parole, cerca qualche difficile frase consolatoria.
Tu guardi il suo corpo ricurvo sulla pietra, intento nella sua opera religiosa, e pensi che il contagio del ricordo non si è ancora fermato, malgrado i tuoi sforzi, malgrado il tentativo fallimentare del silenzio. I figli, e i figli dei figli, e i figli dei figli dei figli. Il dolore non si sana.

Dario Calimani

(4 maggio 2021)