Resistenza ebraica, impegno morale
Molto si è detto e scritto le scorse settimane sulla Guerra di Liberazione, narrando alcune sue vicende, prendendo in esame il suo ruolo primario nel formare le coscienze democratiche, le difficoltà di penetrazione del suo messaggio nella società contemporanea. Due intensi incontri in streaming hanno opportunamente ricordato il ruolo degli ebrei nella Resistenza, o come appartenenti a gruppi di partigiani ebrei (soprattutto nell’Europa orientale), o come membri di bande dalla variegata composizione. Una serata organizzata dal Meis ha sviluppato la sua analisi ponendo al centro il bel libro di Daniele Susini dedicato alla Resistenza ebraica in Europa. Storie e percorso 1939-1945 (Donzelli, 2021) e cercando di smontare il luogo comune degli ebrei vittime passive della Shoah, per definire invece gli aspetti peculiari di una opposizione talvolta armata, spesso disarmata passiva e fatta di piccoli grandi gesti quotidiani nei ghetti e nei Lager, o anche nei luoghi di precario rifugio; una resistenza comunque forte e disperata, nutrita di volontà di vivere, di studio e preghiera, di produzione artistica, di documentazione ostinata della propria agonia (si pensi allo storico Emanuel Ringelblum e all’oscuro lavoro di testimonianza, raccolta e archiviazione svolto dal suo gruppo Oneg Shabbat nel ghetto di Varsavia).
Un’iniziativa curata dal Pitigliani (con la collaborazione di Istoreto, Comunità Ebraica di Torino, CDEC, Meis) ha riguardato invece la partecipazione ebraica alla Resistenza in Italia, descrivendo il vasto lavoro di ricerca storica intrapreso dal CDEC per mettere in luce – attraverso l’incrocio dei dati provenienti dall’Archivio Centrale di Stato, dal censimento degli ebrei italiani del 1938, dal fondo CDEC – le identità, le provenienze, le vicende dei tanti partigiani ebrei italiani: una ricerca ancora in gran parte da compiere e di cui è stato avvincente seguire il progetto attraverso le parole di Liliana Picciotto che ne è la principale animatrice.
Realtà invece già molto nota nelle sue linee essenziali, ma sempre nuova per i personaggi e le vicende messi a fuoco da ulteriori studi, è quella degli ebrei rifugiati nelle piemontesi Valli di Lanzo, narrata nel corso di quest’ultima occasione da Gloria Arbib (appassionata ricercatrice che da anni lavora alla ricostruzione delle figure di molti partigiani ebrei) con l’attenzione puntata su Massimo Ottolenghi, avvocato torinese antifascista – intraprendente ufficiale – inesauribile promotore sia dell’aiuto al consistente gruppo di ebrei rifugiati (e ospitati con straordinaria generosità dalla popolazione locale), sia delle strutture della lotta partigiana nelle Valli. Che erano poi due facce della stessa medaglia, considerando la permeabilità naturale e i rapporti continui tra popolazione locale (nascosta o meno) e mondo partigiano in azione in quelle vallate.
Al di là della partecipazione percentualmente assai vasta (circa 2000 resistenti su una popolazione ebraica italiana di 40.000 unità), è la anche la tipologia del contributo arrecato dagli ebrei ad apparire oggi, considerata ex post e con uno sguardo complessivo, di notevole significato. Comandanti, medici, commissari politici: spesso un ruolo di grande impegno e di portata collettiva li caratterizzava. Dietro questo comune impegno nella lotta, sorge spontanea una domanda: quanto di ebraico c’era – e cosa – nel loro essere partigiani?
Se guardiamo ai componenti delle bande di partigiani ebrei dell’Europa orientale – quelle che hanno ispirato Se non ora, quando? di Primo Levi, tanto per intenderci – dobbiamo rispondere immediatamente: davvero molto, dato che combattevano il nazismo con tutte le loro forze essenzialmente in quanto ebrei perseguitati e braccati ed era il loro essere ebrei a spronarli alla lotta in difesa non solo della propria esistenza fisica ma anche del loro mondo, della microsocietà delle Shtetlekh annientata dal genocidio, dei loro ideali di vita e di rapporti umani che la barbarie delle orde hitleriane stava facendo letteralmente a pezzi. Certo, il rapporto tra condizione ebraica e partecipazione diretta alla lotta antinazista era più sfumato e meno immediato nei tanti ebrei che in Italia aderirono ai gruppi di resistenza armata; eppure forse non meno radicato e intenso. A rafforzare le loro posizioni antifasciste e a dare la spinta decisiva alla loro scelta della lotta clandestina era stata l’individuazione dell’ebreo e dell’ebraismo come male assoluto da parte del nazionalsocialismo; era stata, più in profondità, l’appartenenza a un ambiente familiare, a un sistema civile e morale comunque caratterizzato dalle radici ebraiche, anche se spesso non più legato all’osservanza: un humus sociale fatto di condivisione umana e di valori universali, che si poneva agli antipodi di quello fascista al quale erano stati formati dalla scuola e di quello nazista che ora si abbatteva come un tumulto sulle loro vite. Ed erano stati ancora la positività, l’attivismo propri del mondo ebraico italiano tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento a spronarli verso l’impegno diretto per l’Italia che amavano, quella liberale e poi democratica che aveva dato ai loro nonni i diritti e la libertà, e che il fascismo aveva clamorosamente tradito.
Riflettere sul rapporto fra condizione ebraica e condizione partigiana non può non rimandarci alla figura di Emanuele Artom. Nella sua formazione, nella sua esistenza prebellica di giovane intellettuale ebreo, nella scelta della Resistenza, egli rispecchia perfettamente la situazione che sopra ho tentato di descrivere. Ma nelle pagine del suo diario va decisamente oltre. In questo documento unico e prezioso troviamo, narrata con passione civile e con la forza rappresentativa di un grande scrittore, l’esperienza di un giovane che con entusiasmo e convinzione riversa tutto il suo essere ebreo, tutto il suo credere nell’ebraismo entro la sua vita di commissario politico quotidianamente alle prese con i drammi, le angosce, i dilemmi, le tragiche alternative poste dalla lotta partigiana. Ciò avviene non solo nelle memorabili riflessioni di ampio respiro, dedicate al significato dell’essere ebreo e dell’impegno ebraico in quel particolare momento e contesto, o negli sfoghi e negli amari dubbi che talvolta paiono sfociare in una crisi di identità. Ma anche nelle annotazioni più rapide, nei giudizi puntuali e psicologici sugli altri, nei criteri con cui ritiene si debba formulare una sentenza nei confronti di chi è colpevole di tradimento o di delazione: più volte riporta l’ammonimento datogli da suo padre, che secondo il Talmud è fin troppo severo il tribunale che una sola volta nella sua esistenza commina la pena di morte. E l’ebraismo emerge poi nel suo essere sempre pedagogo, nel suo vincolo costante con la missione dell’educazione politica propria del ruolo di commissario; soprattutto nel rigore morale con cui giudica l’intero movimento partigiano a partire dal suo personale comportamento, nella tendenza a revocare in problema etico ogni scelta, ogni bivio che si presenta davanti al suo ruolo di combattente per la libertà. Sintetizzando in pochi termini, il suo essere partigiano era ebraismo vissuto come impegno morale senza riserve.
David Sorani