America is back

C’è poco da fare, Sleepy Joe, questo il nomignolo imprudentemente affibbiatogli in campagna elettorale dal rivale Donald Trump, sta dimostrando che la politica non è cosa che si improvvisa. Dopo il successo della campagna vaccinale che va avanti a suon di record di iniezioni e la chiamata a raccolta delle democrazie occidentali chiamate a risolvere ogni ambiguità nel rapporto con la Cina, ora il grande piano di rilancio dell’economia in perfetto stile keynesiano. Una maxi iniezione di liquidità da 2000 miliardi di dollari quasi interamente finanziata con l’innalzamento delle tasse sui redditi delle società, che si aggiunge all’altrettanto incisivo piano di salvataggio di 1900 miliardi già precedentemente varato. Ma la novità di maggior rilievo sembra essere la proposta del Segretario al Tesoro Janet Yellen agli altri Paesi Ocse di accordarsi su un’aliquota fiscale minima sui profitti esteri delle multinazionali. Come noto, Yellen ha proposto un’imposta pari al 21%, da suddividersi fra il Paese sede fiscale dell’azienda e il Paese in cui vengono generati profitti. In sostanza, al fisco del Paese sede fiscale delle aziende andrebbero le tasse stabilite dalle leggi nazionali ed il differenziale fino al 21% agli Stati dove vengono generati i profitti. Si tratta di una misura tesa a contrastare un fenomeno che ha generato non pochi squilibri negli ultimi anni sia a livello globale che a livello europeo, dove si registra la presenza di almeno tre paradisi fiscali: Irlanda, Olanda e Lussemburgo. Il caso venne già sollevato con l’elezione alla presidenza della commissione europea di Jean-Claude Junker, sui cui si erano sollevati dubbi di opportunità proprio per il suo passato da premier lussemburghese. In Italia, il dibattito si è acceso in riferimento a Fiat-Chrysler, rimasta italiana solo perché legata al nome Agnelli, ma spostata testa ed anima dove più le conveniva, dopo aver usufruito per decenni di finanziamenti pubblici italiani. Oltre il danno e la beffa, si direbbe in questi casi. I toni si sono poi alzati ulteriormente nei confronti dei grandi colossi del web, capaci di generare miliardi di profitti a regime fiscale ultra ridotto. L’Amministrazione Biden sembra voler porre un freno a queste scorribande fiscali, scoraggiando le aziende, che finora hanno approfittato di un’insensata concorrenza fra Stati spostando la sede fiscale dove più ha fatto loro comodo. In questo modo Biden intende recuperare introiti da investire nel welfare per riaccorciare la forbice fra ricchi e poveri, male endemico delle democrazie occidentali su cui ha prosperato il populismo emerso nello scenario politico a partire dalla crisi del 2007, generando anche fenomeni acuti come la Brexit e la Presidenza Trump. Insomma gli Stati Uniti, con la forza persuasiva della potenza numero uno del pianeta, tentano di imporre al mondo nuove leggi, riscoprendo quella vocazione imperiale che non sono mai riusciti realmente a sviluppare e che è stata ulteriormente mortificata dall’isolazionismo (a parole, ma anche con qualche fatto) degli anni trumpiani. America is back, dice lo slogan di Joe Biden. E non è davvero un male perché il mondo ha bisogno di un principio regolatore che superi i limiti sempre più angusti dello Stato nazione.

Davide Assael

(5 maggio 2021)