Quando Jabotinsky tradusse l’Inferno

Durante il Mandato britannico la di Acri servì come prigione principale per il nord di Israele. Centinaia di membri delle organizzazioni clandestine Haganah, Etzel e Lehi furono imprigionati qui nel corso della loro lotta nel nome della creazione dello Stato ebraico. Tra i primi prigionieri che i britannici rinchiusero ad Acri ci fu Zeev Jabotinsky, condannato al carcere per eventi legati alle violenze arabe del 1920. Intellettuale e letterato, Jabotinsky, leader del sionismo revisionista, usò il suo tempo in prigione per scrivere e tradurre. E di tempo, stando alla severa sentenza del giudice, ne avrebbe avuto parecchio: la condanna iniziale prevedeva infatti quindici anni di detenzione. Poi le proteste del mondo ebraico e della stampa britannica portarono ad un ampio sconto di pena, con la riduzione della prigionia a un anno. In questo periodo, nella sua cella, Jabotinsky riprese in mano una delle sue passioni letterarie: la Divina Commedia.
Canto dopo canto, iniziò a tradurre diverse parti dell’opera dantesca, in particolare dell’Inferno. Una traduzione non fedele, ma dal grande valore letterario come conferma un commento di Sandra Debenedetti Stow, già docente nel Dipartimento di Letteratura comparata all’Università Bar-Ilan e autrice del saggio Dante e la mistica ebraica (Giuntina). “È a tutt’oggi considerata – la valutazione dell’accademica – la migliore dal punto di vista poetico, per l’impegno nel riprodurre fedelmente il metro della terzina dantesca”.
Una valutazione condivisa da Ariel Rathaus, considerato uno dei più autorevoli traduttori da italiano ed ebraico che di recente ha tradotto, per il pubblico israeliano, il Trattatello in laude di Dante di Giovanni Boccaccio. Rathaus, in merito alla traduzione di Jabotinsky, spiega che siamo in presenza di un capolavoro, seppur infedele rispetto al testo originale. Forse, aggiunge, si tratta più di un imitazione, o comunque una traduzione creativa, ma rimane una perla della letteratura in ebraico. Tanto che con ironia Rathaus fa notare come sia un peccato che a Jabotinsky fosse stata ridotta la pena: con più tempo a disposizione, forse avrebbe portato a termine la traduzione dell’intera Commedia.
Sul perché della scelta dell’intellettuale di imbarcarsi in questa opera, Rathaus ricorda la sua grande passione per la letteratura italiana. Una letteratura che Jabotinsky aveva conosciuto bene nei suoi anni da corrispondente in Italia per un giornale russo (aveva anche studiato a La Sapienza di Roma giurisprudenza, senza però concludere gli studi).
“Mentre era in prigione – aggiunge Rathaus con un sorriso – forse avrà pensato che trovandosi lui in un piccolo inferno, tanto valeva tradurre quello dantesco”.

Pagine Ebraiche maggio 2021 – Dossier “Dante e gli ebrei”

(5 maggio 2021)